ed. Adelphi, 2016

E se fosse tutto un sogno? Se la vita che viviamo non fosse reale, cosa farebbe male davvero? Chi deciderebbe per la vita o per la morte di qualcuno? Cosa sarebbe la normalità?
La vegetariana è un libro di Han Kang, scrittrice sudcoreana Premio Nobel per la letteratura 2024, pubblicato in Italia da Adelphi nel 2016. Tra le motivazioni per cui è stata insignita del prestigioso premio si legge “per la sua intensa prosa poetica che affronta i traumi storici ed espone la fragilità della vita umana”.

Il libro racconta la storia di una donna, Yeong-hye, che in seguito ad un sogno decide improvvisamente di non voler mangiare più carne.

Il libro tocca intensamente il lettore perché racconta la profondità e la complessità dell’essere umano dietro le scelte apparentemente semplici o banali o prive di senso delle persone. Costringe ad andare oltre, molto oltre, tanto che nel mezzo della lettura ci si scorda del titolo del libro. Perché non è un libro sul vegetarianesimo, non è un libro su disturbi alimentari, non è un libro sui disturbi mentali. E’ qualitativamente altro: è la narrazione della sofferenza, del malessere, delle sue forme soggettive e uniche, nelle piaghe di una vita puntellata dalla quotidianità, dalle norme sociali, dal background familiare. E’ lo sviluppo di un dolore che assume gradualmente vita propria, che si impossessa del corpo e dell’anima della protagonista, fino a diventare anch’esso uno dei protagonisti del libro, un altro personaggio, qualcosa di “altro” che può esprimersi solo toccando o abitando le vite e le esperienze umane.
E’ la storia di un tormento familiare, di come il passato possa prorompere nel presente in un modo distruttivo e svuotante. La storia di un accudimento, unica forma di difesa dal dolore, che sembra quasi suggerire l’esistenza di una parte vincitrice e una perdente, una partita a scacchi con il destino. Le facce di una stessa medaglia che raccontano la stessa storia, il dolore a volte uccide e a volte svuota di vita un corpo che produce.

Uno dei temi principali del romanzo è quello della ribellione, della rinuncia alla sottomissione, dell’abbandono dei canoni, delle aspettative di ruolo sociali, parallelamente accompagnati dalla scoperta di sé, del proprio potere interiore, dei propri desideri e sogni (non a caso tutto inizia da un sogno). Quella che sembra essere sempre stata una moglie integerrima, una figlia devota, una donna ordinaria si trasforma improvvisamente in un essere silenzioso, eccentrico, incomprensibile, talvolta anche aggressivo. Ma questa forma di opposizione e creazione di una nuova esistenza è talmente impossibile da comprendere e accettare da parte della società che può essere solo raccontata dagli altri. L’Io della protagonista sembra non poter esistere, schiacciato dal Tu, dal peso della relazione che la relega e la definisce in ruoli ben precisi, in aspettative ben definite, che finiscono per essere disattese o completamente rotte, ma la vera interiorità della protagonista rimane inaccessibile.
Colpisce infatti la scelta stilistica dell’autrice, per cui la storia, suddivisa in tre parti, è interamente raccontata dal punto di vista degli altri: le parole della protagonista, i suoi pensieri, i suoi sogni restano sullo sfondo, detti e non detti, rimangono avvolti dal mistero, come se fossero meno comprensibili e meno dignitosi di quelli degli altri. Tutta la trama si sviluppa sulle azioni e reazioni degli altri, sui mondi interni di chi sta attorno alla persona che soffre di un disturbo, come spesso accade nella realtà. La protagonista viene quasi subito tacciata di essere pazza, folle, di aver perso il senno, la testa, di volersi lasciare morire eppure negli interstizi del racconto, si intravede una vita interna, fantasmatica ed emotiva, molto ricca della protagonista.
Il modo in cui viene descritta nel primo capitolo, quello del marito, è la presentazione di un corpo che è già svuotato della sua soggettività (banale, una donna ordinaria, una moglie come tante…) e proprio quel corpo femminile diventa non solo rifugio ma anche strumento di manifestazione del proprio dissenso. Il corpo diventa l’unico mezzo di autodeterminazione, e il vegetarianesimo solo una scusa, un ponte per poter giungere a rivendicare il proprio diritto ad esistere.
Due aspetti molto intensi si contrappongono: il modo in cui gli altri definiscono le scelte della protagonista (deliranti, folli, assurde, senza senso…) e la determinazione, la volontà, la forza fisica e l’aggressività con cui la protagonista le difende, fino all’ultimo giorno in ospedale.
E proprio l’ospedale psichiatrico è il contesto in cui si sviluppa il terzo capitolo, quello narrato dal punto di vista della sorella di Yeong-hye. L’ospedale psichiatrico, emblema nella società di un nutrimento forzato, doloroso, che contiene la fragilità dell’essere umano a volte distruggendola; proprio come l’esperienza di vita della protagonista e di sua sorella, chi accudisce distrugge e allontana da sé la follia.
Solo in questa ultima parte si dischiude un tentativo di comprensione e vicinanza, perché anche la sorella della protagonista si abbandona al proprio dolore, si autorizza a osservare e nominare il proprio malessere. Nel linguaggio del dolore, in questo nuovo codice comunicativo (che quasi abdica la necessità del canale verbale, tanto che la protagonista diviene quasi del tutto muta e incosciente) emerge la possibilità della condivisione, della comprensione e dell’accettazione.
Perché? È così terribile morire? La domanda che spiazza nel libro. Perché la morte viene nominata, presentificata, riconosciuta, e perché di morte si parla poco, se non quando accade (e neanche così spesso). La domanda davanti alla quale il lettore rimane smarrito, perché la morte è terribile “per definizione”, ma se qualcuno ci chiede il perché è difficile poter dare spiegazioni, abbozzare argomentazioni.
E poi quale morte? Quella del corpo? O esistono altre forme di morte, che possono essere ancor più dolorose? La normalità uccide perché uccide la specificità di ognuno. E forse l’intero romanzo altro non è che il racconto di una morte causata dalla normalità, dalla categorizzazione, dalla pressione a essere “conformi” alla società; di una morte scelta e abbracciata come estrema forma di liberazione.


È così che la follia spesso diventa lo specchio in cui ritrovare le tracce di sé, che permette di tornare su binari socialmente accettabili, fornendo un’immagine di ciò che sarebbe potuto essere. Il paziente diventa la panacea che mette a tacere la parte folle di ogni individuo che ne viene a contatto con lo sguardo. È così che la società divora la diversità, mostrando l’inaccettabile e mettendolo al bando.


“La vegetariana” , un titolo emblematico, diventa quindi il rappresentante del rifiuto di un nutrimento apparentemente vitale ma che in realtà distrugge la parte sana della protagonista, la formula magica per sopravvivere ad un ambiente di vita schiacciante, che la società legge come normalità.

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