Di storie d’amore ne abbiamo sentito parlare tutt*. Al cinema, nei libri, nelle canzoni, nelle conversazioni con le persone care. Le storie che abbiamo ascoltato fanno parte di noi, perché almeno in una di queste, ci siamo riconosciute, abbiamo riso e abbiamo pianto nella speranza che l’amore trionfasse su tutto. Non importa a quale prezzo.
Ma in che modo le narrazioni sull’amore influenzano le nostre relazioni?
Coral Herrera Gòmez identifica ed esamina le diverse storie che traducono l’amore in mito, sottolineando il ruolo che questi hanno nella costruzione stereotipata, binaria e gerarchica del genere. Secondo l’autrice, infatti, impariamo ad amare attraverso la nostra esperienza personale, nel contesto familiare e nella nostra cerchia affettiva più stretta. Ma lo impariamo appunto anche dalle storie che traducono l’amore in mito e idealizzano il miracolo dell’amore romantico in cui il principe azzurro, impegnato a salvare il mondo, troverà la sua principessa, che possibilmente rimane rinchiusa in qualche castello in attesa che Lui si presenti, fino al lieto fine in cui vivranno per sempre felici e contenti.
Oltre al mito dell’amore onnipotente, un’altra narrazione molto radicata nell’immaginario femminile è quella dell’essere incomplete senza la nostra dolce metà, inducendoci a cercare senza sosta l’anima gemella.
Nel Simposio di Platone si parla del mito degli androgini: in principio sulla terra esistevano delle creature mostruose, gli androgini, formati da corpo maschile e femminile uniti insieme, con quattro gambe, quattro braccia, una testa e due facce. Gli dèi, invidiosi di queste creature superiori e complete, decisero di separare il corpo maschile da quello femminile, rendendoli solo uomo o solo donna. Da quel momento ogni essere umano si sente incompleto e passa la propria vita a cercare disperatamente la sua metà perduta.
Questi miti va di pari passo con il mito dell’eternità: il vero amore dura per sempre. Al quale va aggiunto il mito dell’unicità, e come se non bastasse anche quello della predestinazione: esiste una e una sola persona perfetta per noi, quando arriverà lo sentiremo, ci saranno dei segnali. Infine dovremo aggiungerci anche il mito della fusione: ci capiremo senza bisogno di parlarci, saremo uno dell’altra.
A questo punto sorge una domanda spontanea: perché riflettere sulla violenza di genere significa per forza di cose partire dai miti che parlano dell’amore? Senza dubbio perché, se la violenza non è amore,” l’amore c’entra eccome”, come afferma Lea Melandri.
In effetti tutti i miti che abbiamo elencato portano ad un’unica grande verità: quando pensiamo all’amore, pensiamo ad un magma fusionale in cui non esistono più confini, in cui pensiamo di avere tutti i diritti sull’altra persona. Se l’altra persona siamo noi, siamo allo stesso tempo soggetto e oggetto del possesso. Quindi, inevitabilmente, se l’altra persona scompare la nostra vita non avrà più nessun senso.
Bauman, riferendosi alla modernità, parla ad esempio di amore liquido, una realtà instabile nella quale le persone, disorientate da un sistema sociale in continuo e rapido cambiamento, sono portate a cercare un senso di stabilità e di sicurezza all’interno delle relazioni. Si crea così un enorme paradosso, in quanto la relazione composta da due persone, è inevitabilmente e assolutamente imprevedibile perché per quanto amiamo l’altro, questi è libero di lasciarci in qualunque momento.
Il fatto di non essere in coppia rappresenta quindi, dalla notte dei tempi, un fallimento. E questo senso di vuoto esistenziale giustifica tutto in nome dell’amore: il sacrificio, il dono incondizionato di sé, l’annientamento.
Ecco che dunque il discorso pubblico e le narrazioni mediatiche trattano i femminicidi e la violenza di genere come “eccesso di amore”, alimentando e confermando la convinzione che in amore valga tutto. Anche lo stalking, le botte, la violenza psicologica e l’omicidio.
Nel 2025 da inizio anno all’8 novembre, sono stati monitorati 89 casi di omicidio legati alla violenza di genere; 76 dei quali confermati come femminicidi.
Il report Istat del 2023 stima che su un totale di 117 donne uccise, 96 sono state uccise in ambito familiare e affettivo, delle quali ben 63 sono state uccise da partner o ex partner.
Non ci sono dubbi: ad uccidere le donne, molto spesso, sono persone con cui la vittima aveva relazioni intime, non degli sconosciuti o degli immigrati, come purtroppo abbiamo sentito dire da alcuni ministri del governo.
Ma come si arriva ad uccidere la propria compagna o ex?
Da un punto di vista sociale, storicamente, a partire dall’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento di bestiame, le donne sono state relegate alla funzione riproduttiva e di cura, poiché sostanzialmente servivano più braccia per il lavoro. Prende forma quindi una società basata sull’esaltazione dell’uomo in quanto fisicamente più forte, attribuendogli a partire da ciò caratteristiche positive in senso assoluto, mentre le donne iniziano ad essere descritte come fisicamente inferiori e perfino inaffidabili, poiché facili prede delle loro emozioni, deboli e bisognose di protezione, con una conseguente e progressiva esclusione dalla vita politica, sociale e pubblica.
Il controllo ha quindi una matrice culturale e ripropone degli schemi stereotipati che vedono un genere, quello maschile, padrone dell’altro.
Da un punto di vista psicologico, il nucleo della violenza si potrebbe riassumere nel bisogno di controllare l’altro, diminuendo l’incertezza a favore della stabilità. In altre parole, il bisogno di controllare l’altra è interconnesso alla frustrazione di un’aspettativa: che la compagna soddisfi qualunque suo bisogno, costituendo una sorta di contenitore emotivo, l’angelo del focolare e infine essere il centro del mondo e delle attenzioni della partner.
Quando questo non succede o ancora peggio quando si viene lasciati, vengono a galla delle emozioni negative che solitamente non sono così accessibili per le persone socializzate maschi alla nascita. Parliamo ad esempio dei vissuti di abbandono che portano a quel ” non posso vivere senza di te” che facilmente rischia di diventare un “non vivrai senza di me”(Bozzoli et al., 2017).
Questo perché spesso, gli uomini vivono la socialità come luogo di cameratismo, competizione o affermazione di un sé senza fragilità in cui non vengono condivise le emozioni, l’intimità, controllando continuamente questi aspetti di sé. Inoltre, il bisogno di aderire a dei modelli normativi di virilità e quello di avere più potere della partner all’interno della relazione per non porsi mai in situazioni di svantaggio e quindi di fragilità, alimentano una virilità e una performatività precaria che va continuamente mostrata e dimostrata. Non si può ad esempio tollerare di essere traditi, perché questo metterebbe a rischio la rispettabilità sociale, l’immagine di famiglia da mulino bianco e in generale l’onore della famiglia, impersonata ovviamente dall’uomo di casa (Procentese et al., 2019).
Ma quindi chi sono gli uomini violenti?
Spoiler: non esiste nessun identikit. Anzi, la costruzione di una categoria di “uomini violenti” porta una scissione tra buoni e cattivi, normali e anormali, e tra sani e malati, che serve unicamente a non vedere e riconoscere il problema. Non si può escludere dall’equazione la cultura maschile, machista e patriarcale in cui siamo immersi e da cui nasce la violenza. Bisogna mettere in relazione la violenza e il modo in cui i maschi hanno imparato e scelto di diventare uomini.
La violenza di genere, infatti, è un modo di stare o di non stare nella relazione. È un comportamento scelto che esprime un modo di pensare in cui l’uomo, detentore in quanto tale del potere, si sente legittimato a svilire, umiliare, controllare, manipolare e addirittura cancellare l’esistenza della donna.
In conclusione, la violenza di genere non nasce “dal nulla”: è il frutto di abitudini culturali, stereotipi e squilibri di potere che si sedimentano nelle famiglie, nelle relazioni, nei gruppi e nelle istituzioni. In Italia la visibilità pubblica del problema è cresciuta con i movimenti femministi a partire dagli anni ’70; tuttavia permangono narrazioni e comportamenti quotidiani — battute sessiste, controllo dei corpi, minimizzazione dei vissuti — che rendono possibile e mantengono un sistema violento.
Il contrasto a questa forma di violenza è una rivoluzione romantica, un modo di ripensare a come stare nelle relazioni e una lotta per un cambiamento politico, materiale e collettivo. Come professionist* della salute mentale, crediamo che la cura passi anche attraverso la politicizzazione dei saperi e delle analisi psicologiche. A rivoluzionare l’amore saranno in parte le emergenti consapevolezze individuali ma la vera forza è l’integrazione delle parti: individuali, sociali e psicologiche.
Non basta prendersi cura delle piante. Bisogna anche cambiare il terreno in cui mettono radici. (Tuaillon,2021).
Bibliografia
Bauman Z., (2003), Amore liquido: Sulla fragilità dei legami affettivi. Editori Laterza, Roma.
Bozzoli A., Merelli M., Ruggerini M. (2017) (Eds) Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali d’intervento, IIIed. Roma: Ediesse Editori.
Coral Herrera Gòmez (2018), Mujeres que ya no sufren por amor: trasformando el mito romàntico, Catarata editore
Melandri Lea, (2011) Amore e violenza, il fattore molesto della civiltà, Bollati Boringhieri editore, Torino.
Procentese, F., Gatti, F., & Di Napoli, I. (2019). Families and Social Media Use: The Role of Parents’ Perceptions about Social Media Impact on Family Systems in the Relationship between Family Collective Efficacy and Open Communication. International Journal of Environmental Research and Public Health, 16, 5006.
Tuaillon V. (2021) Il cuore scoperto. Per ri-fare l’amore. A cura di Associazione Vanvera, add editore, Torino.

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