Si è tenuto, il 15 Maggio 2019, presso Coripe Piemonte, un’open lecture di Benedetto Saraceno, già Direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Dipendenze dell’OMS, di cui queste pagine costituiscono un breve report. Abbiamo privilegiato, per quanto possibile, un taglio che permetta di cogliere quanto accaduto nella maniera il più fedele possibile riducendo al minimo analisi e commenti.

Introduce i lavori Marco Sisti, direttore dell’IRES Piemonte, ringraziando Coripe Piemonte, San Paolo e la Dott.ssa Nerina Dirindin che ha dato avvio al processo all’interno del quale è stato costruita la giornata. Sottolinea l’impegno di IRES nel prestare attenzione alle evidenze nella costruzione e nel disegno delle politiche pubbliche, nel valutare effetti e ricadute degli interventi oltre che al ruolo centrale della partecipazione e dell’inclusività dei processi decisionali come testimoniato dalla costruzione del percorso partecipato di redazione del Piano d’Azione Regionale per la Salute Mentale insieme ai destinatari dei servizi e dalla creazione Consulta Regionale per la Salute Mentale, la terza dopo Lazio ed Emilia-Romagna.
Segue l’intervento di Danilo Bono, Direttore Responsabile del settore Programmazione Sanitaria della Regione Piemonte, con la speranze che all’“inizio di questo percorso rivoluzionario” le intenzioni si possano trasformare in atti, in percorsi pragmatici che tengano conto della ricchezza della diversità più che in generiche declamazioni. Bono sottolinea l’importanza di occuparsi di patologie, disagi e fragilità attraverso tre pilastri fondamentali : accessibilità, tutela dei percorsi individuali (all’interno delle certezze fondate sull’evidenza) e monitoraggio, valutazione e verifica ribadendo l’urgenza di un’azione concreta e immediata perché, sostiene, “ci sono dei tempi dopo i quali le forze delle rivoluzioni si stemperano”.
Prosegue Senatrice Nerina Dirindin, presidente del Coripe e membro del comitato scientifico dell’IRES. Il suo intervento si sviluppa attorno a 5 punti: 1) Assalto alla sanità pubblica. Visto che le “conquiste non sono mai per sempre” è necessario partire, per qualsiasi considerazione, da un’analisi seria dei tagli alla sanità pubblica operati negli ultimi anni in nome della crisi e delle sue conseguenze sulla qualità dei servizi. Questi si ritrovano, in seguito alla restrizione del personale, agli accorpamenti delle ASL e alla creazione di DSM enormi che arrivano a contare fino 1 milione di abitanti (così come ribadito dal meraviglioso DDL 2850 che porta il nome, tra gli altri, anche della Senatrice), ad operare in condizioni che tendono a snaturare i principi sui cui si dovrebbe fondare la salute mentale di comunità. 2) Aumento delle condizioni di disagio sociale. Si assiste ad un fastidioso paradosso per cui all’aumento dei bisogni di salute, legati ad un aumento del disagio, anche sociale, i servizi rispondono con una diminuzione delle risorse che spesso esita in una presa in carico tardiva, di carattere prevalentemente sanitario e senza contatto con la comunità di riferimento. 3) Fare i conti con le risorse disponibili. Occorre “fare i conti con le risorse necessarie e con quelle esistenti per far fronte ai bisogni delle persone” e“ rendere i servizi più umani, accessibili e più efficaci”. Come possiamo innovare e trasformare, cambiare il paradigma con le risorse attualmente disponibili, ad esempio all’interno di percorsi di domiciliarità e territorialità, senza però rinunciare alla rivendicazione di maggiori risorse? 4) Maggiori rapporti con le Associazioni di persone e familiari che hanno chiesto un impegno contro le disuguaglianze nel territorio regionale oltre che la diffusione di “buone pratiche”. Le associazioni rivendicano un cambio di paradigma da parte degli operatori riassunto nel motto “guarire si può !”. La Senatrice riporta come queste, spesso fortemente demotivate, abbiano sottolineato la necessità di una riconversione del budget di salute verso supporto delle persone individualizzato nelle comunità, sempre sottoposta alla regia del servizio pubblico. 5) Approccio dei diritti umani. “Abbiamo bisogno di superare i limiti della medicina attuale per il bene dei pazienti e garantire la sostenibilità della salute pubblica, non possiamo soccombere alle resistenze corporative o agli interessi del mercato e alle pressioni di questo per un certo impiego dei farmaci” riporta dalle slides e conclude affermando che per “guardare alle persone non alle malattie” occorre coltivare il movimento che attualmente sembra caratterizzare il mondo della salute mentale.

Giovanna del Giudice introduce brevemente il Dott.Saraceno ricordandone i due maestri, Franco Rotelli e Franco Basaglia, e accennando brevemente alla sua carriera: da Trieste come neolaureato, diventa direttore del dipartimento di Psichiatria del Mario Negri per poi assumere l’incarico di direttore del Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze dell’OMS fino al 2010 apportando un grande cambiamento anche culturale e spostando il paradigma da un modello clinico ad modello, di carattere prevalentemente epidemiologico, centrato sulla sanità pubblica.

NON CI SONO PIU’ SCUSE: ANCHE LA EVIDENCE BASED MEDICINE SI ALLINEA CON I PRINCIPI E LE PRATICHE DELLA PSICHIATRIA CRITICA  ANTI-ISTITUZIONALE

Saraceno prende parola ringraziando, da una parte, le istituzioni e, dall’altra, gli amici presenti, quasi ad avviare fin da subito l’opera di de-istituzionalizzazione che connota tutti i suoi lavori e che costituirà l’intenzione alla base di tutto l’intervento.
Non avendo attualmente incarichi professionali in Italia introduce il proprio intervento dicendo che questo metterà a fuoco il dibattito internazionale che si sta costituendo attorno a ciò che egli chiama, provocatoriamente, la “moda della Global Mental Health”. La riforma Basaglia infatti, al netto degli indubbi benefici prodotti, ha rischiato di rendere buona parte della psichiatria italiana superba e disinteressata a quanto accade all’esterno del panorama nazionale e Saraceno sottolinea che, nonostante le aspettative, l’introduzione dell’EBM (Evidence Based Medicine), tardiva in psichiatria, abbia conferito ulteriore solidità alle prove di efficacia sugli effetti sulla salute derivanti da cambiamenti nei servizi introdotti esclusivamente sulla base di principi etici. E conclude il passaggio, fra fragorose risate, più o meno distese della platea: “In realtà è andata bene. Avevamo ragione: la diagnosi non serve a nulla, come afferma la Lancet Commission” e, per rincarare la dose, riporta le parole di Thomas Insel, direttore del NIMH, che definisce il DSM5 “la Bibbia dello zero assoluto”.

Saraceno inizia con una panoramica sullo stato di salute della psichiatria. La sua clemenza non raggiunge il suo disarmante realismo. Riprende alcuni concetti ben illustrati nei suoi libri: “La psichiatria è caratterizzata da una povertà epistemologica e morale[…] Abbiamo bisogno di restituire legittimità ai fattori soggettivi, al sapere degli utenti e alle loro richieste di mettere in discussione il paradigma dominante e gli attuali modelli di cura”. Con semplicità aggiunge: “La verità è che, attraverso il paradigma biomedico, conosciamo poco o nulla della malattia mentale. […] Non sappiamo cosa causi la malattia[…] dietro all’utilizzo di costrutti come «Multigenetico» si cela in realtà una resa al tentativo di costruire un modello eziologico della malattia mentale.[..] Chi sono i responsabili del disagio: i geni? La mamma? La scuola? La povertà? […]”.
Sottolinea quindi il ruolo, differente per le diverse forme di disagio, dei determinanti sociali della salute mentale: un impatto molto forte impatto sui disturbi mentali comuni (ansia e depressione), meno forte seppur determinante in altri, come la schizofrenia, per la quale evidenze robuste testimonino il circolo vizioso di impoverimento, sociale ed economico, innescato a partire dal momento della diagnosi che sembra avviare, per chi viene diagnosticato, un trend diminuzione esponenziale dei possession (i possedimenti). “La prima causa del suicidio è rappresentata dal debito”.
Ritornando sullo statuto epistemologico della psichiatria afferma che questa non sia, a tutti gli effetti, una disciplina complessa, quanto una disciplina additiva che “rubacchia qua e là, inserendo frammenti di altre discipline, sociologia, antropologia, psicologia […].”
Nonostante la psichiatria sia, da questa prospettiva, molto ignorante si ritrova in prima linea, rappresentando a tutti gli effetti una scienza “epistemologicamente fragile ma fattualmente engagée”.

Saraceno allarga il discorso sulla psichiatria considerando l’oggetto del suo intervento. E’ necessario, dice, passare da una concezione categoriale della salute mentale ad una concezione dimensionale. “Diversamente da quanto accade negli altri ambiti della medicina non ha senso dire «ho un po’ di tumore», mentre ha molto senso affermare «ho un po’ di depressione», rispecchia maggiormente la realtà delle cose”.
In tale continuum egli inserisce nel primo polo il Wellbeing (ovvero il benessere), nell’ipotetico mediana la Demoralization (ovvero il disagio, lo stress), il secondo polo sarebbe costituito dalla patologia che nel suo estremo può condurre alla disabilità.

                                                          Wellbeing<->Demoralization<->Patologia<->Disabilità

Tale differenzazione dovrebbe guidare un’adeguata allocazione delle risorse per gli interventi. Saraceno sottolinea come al contrario le risorse economiche e umane si muovano spesso solamente su un piccolo segmento di questo asse, sul polo della disabilità, oppure nella crisi che anticipa la patologia, verso le strutture residenziali o gli SPDC. Tali investimenti non vengono bilanciati da risorse allocate sul polo della wellbeing per interventi seri di prevenzione e promozione della salute ad esempio nelle scuole, per contrastare il bullismo, per la prevenzione della depressione post-partum o della violenza domestica. Paradossalmente neanche l’ultimo segmento, in presenza di una grave disabilità, viene coperto da risorse adeguate per azioni efficaci perché spesso nella pratica mancano interventi di reale riabilitazione come accade tutte le volte che si ritiene il paziente “così grave da dover essere messo in residenzialità”. Saraceno, rigoroso, ribadisce che “la risposta ad una disabilità non è un letto, è la riabilitazione. La riabilitazione non si fa a letto, si fa in piedi” nonostante la radice etimologica di “clinica” (ovvero “l’arte del curare a letto”).
Per dar maggior chiarezza riprende uno slogan degli utenti in Svizzera (“Moin de lits plus de vie!”) aggiungendo che “riabilitazione non significa avere struttura protetta ma implica la ricostruzione della contrattualità delle persone in modo che possano rientrare nel circuito della socialità. Di quale forza riabilitativa sono dotate le attuali proposte?”
Riallacciandosi al discorso relativo all’allocazione delle risorse ammonisce sull’importanza dei contesti di vita “la salute mentale è una cosa troppo seria per essere delegata alla psichiatria, […] allo stesso modo ci sono robuste evidenze scientifiche, ad esempio, che la scuola sia più importante della clinica per occuparsi di autismo”.

A questo punto Saraceno porta il discorso sul rapporto tra l’atto clinico e il contesto del servizio. “L’intervento psichiatrico è composto due fattori: il trattamento e il servizio in cui tale trattamento viene agito. […] Gli psichiatri si occupano soprattutto del trattamento.” Sottolinea quindi l’importanza, determinante per l’efficacia, del contesto dentro cui avviene tale atto. “Il contesto dei servizi è tanto importante quanto il gest medical, l’atto clinico (ovvero la capacità tecnico) che viene da questo determinato […]. Ad esempio tutti noi preferiremmo avere un infarto a Roma piuttosto che a Istanbul. Questo non dipende dalla bravura tecnica del cardiochirurgo ma dal contesto dentro cui tale intervento viene attuato. […] In salute mentale, è preferibile un servizio aperto 16h al giorno con operatori mediocri oppure un servizio con operatori tecnicamente bravissimi ma aperto 1h al giorno?”. Vicino ad un approccio autenticamente epidemiologico e orientato alla public health sottolinea, riprendendo una parte degli studi svolti presso il Mario Negri, che “mentre gli psichiatri si specializzano sempre di più nel gesto tecnico, le evidenze sottolineano che in una popolazione di dimessi da un servizio ospedaliero di psichiatria il più potente determinante di ri-ammissione era la tipologia organizzativa del servizio psichiatrico che aveva in carico il paziente, questo significa che il rischio di riospedalizzazione più che dipendere da fattori clinici dipende da fattori legati alle politiche e alle strategie organizzative dei servizi” [1].

Con uno sguardo ai servizi, Saraceno sottolinea la cruciale differenza tra servizi di Salute Mentale presenti nella comunità e servizi di Salute Mentale a questa indirizzati che si occupino di salute della comunità, con questa e per questa. Tale differenza appare rilevante nella misura in cui, spesso, i servizi sembrano limitarsi ad essere posizionati all’interno della comunità senza a questa rivolgersi rivolgersi né alla salute mentale della popolazione. In tal senso urge reindirizzare quei servizi di salute mentale che rischiano di rappresentare spesso un “ingrediente malsano” per la salute della popolazione e che (e qui Saraceno allude forse, pur senza citarli, ai celebri studi dell’OMS che testimoniano il carattere iatrogeno della presa in carico presso servizi di salute mentale in paesi industrializzati [2][3] [4] [5]) lo portano a interrogarsi se sia preferibile essere schizofrenici in Italia oppure in Congo.
Arrivato a questo punto non gli rimane che affondare: “non sono un antipsichiatra: la malattia mentale esiste, quello che non esiste è la psichiatria”. Una parte di tale iatrogenesi, sostiene, potrebbe essere ricondotta al corrente utilizzo dei farmaci. “I farmaci funzionano, il problema sono gli psichiatri, spesso incapaci a leggere i dati […] né formati all’utilizzo di questi se non da informatori farmaceutici”. Anche in riferimento all’utilizzo dei farmaci egli sostiene che se i trattamenti possono migliorare (a livello individuale) i servizi debbano farlo anche perché se “l’ impatto del trattamento sul contesto è poco, quello del contesto sul trattamento è molto”.

Ritornando al punto, rievoca l’insegnamento di uno dei due suoi maestri, Franco Rotelli, il quale affermava che “Il miglior servizio di comunità è quello vuoto, quello in cui gli operatori sono nella comunità, con le famiglie, per fare prevenzione”. Saraceno evidenzia che attualmente, a livello di popolazione, la fascia più vulnerabile sia rappresentata dagli adolescenti (“75% delle malattie mentali iniziano prima delle 18 anni”). “L’attenzione a questa fascia, particolarmente a rischio, non dovrebbe portare a psichiatrizzare le scuole[…] ma a immaginare e mettere in pratica interventi di prevenzione (quali ad esempio, peer learning, corsi di ”refusing skills”, interventi sulla violenza domestica) […] che permettano di lavorare su cluster di vulnerabilità ampi […] piuttosto che tramite interventi a silos, verticali”.

Sempre in relazione all’importanza del lavoro nella comunità, a partire dai concreti contesti di vita, ovvero sui determinanti sociali della salute, Saraceno accenna all’importanza epistemologia degli interventi di “Housing First” volti all’inserimento della persona a cui è destinato all’interno di in un contesto che aiuti “a sentire che vale la pena di vivere facilitando la ricostruzione del senso della vita”. Diversamente, invece, all’interno dei servizi attuali, gli psichiatri conoscono, teoricamente, il peso che i determinanti sociali della salute mentale rivestono nell’influenzare salute e malattia ma questi vengono considerati sopratutto all’interno di una modellistica eziologica e raramente come parte integrante dell’intervento proposto.

Volgendo verso il termine dell’intervento Saraceno si sofferma sul problema dei diritti dei pazienti psichiatrici mettendo in risalto, più che la forte contraddizione esistente tra le declamazioni e lo stato di realtà, la necessità di esigere che tali diritti siano rispettati, attraverso l’applicazione delle leggi le violazioni delle quali non possono che essere sanzionate così come previsto dalla legge. Il riferimento è agli articoli 15 e 16 della Convenzione sui Diritti delle Persone con Disabilità che, in quanto ratificata dal parlamento italiano, acquisisce il valore di legge  offrendo una leva giuridica per opporsi ai trattamenti disabilitanti e inumani (farmacologici o elettroshock) spesso posti in essere senza il consenso del paziente che li subisce. Saraceno porta all’attenzione al Rapporto sulla tortura del Special Rapporteur delle Nazioni Unite, Juan Mendez il quale esprime forti perplessità per quanto concerne: 1) ill treatment, ovvero “i trattamenti malsani, malgrado rivendicazione buone intenzioni” e 2) il riferimento alle medical necessities, ovvero l’insieme di giustificazioni di carattere medico addotte per legittimare azioni lesive della dignità delle persone. Saraceno taglia corto senza mezzi termini ricordando che “la contenzione è una tortura. Violiamo la legge”.

Saraceno mette in evidenza dei servizi psichiatrici che vorrebbero essere chiamati servizi di “salute mentale” senza riuscire ad occuparsi che di malattia: “O ci chiamiamo ambulatori di psichiatria oppure ci mettiamo a praticare realmente azioni di salute mentale. […] E il ventaglio di problemi di cui ci occupiamo va restringendosi, […] se c’è una disabilità (funzionale) il caso scompare diventando di pertinenza «sociale» senza una reale presa in carico da parte dei servizi, se c’è poco disagio diventa pertinenza della «prevenzione» e possiamo non occuparcene . Siamo chiari, la psichiatria non si occupa di salute mentale ma di malattia mentale”.

D’altra parte, il rischio, già evocato da Saraceno, è duplice nella definizione dell’oggetto dell’intervento. “Occuparsi esclusivamente di malattia significa avere un bersaglio troppo piccolo, ristretto. Occorre però prestare grande attenzione a non ampliare eccessivamente l’oggetto del proprio intervento che rischierebbe di psichiatrizzare e medicalizzare inutilmente. […] Si tratta del rischio della sovradiagnosi.” Rispetto all’allargamento del campo d’azione e alla definizione dei cut off (epidemiologici) Saraceno spiega che buona parte dei dati forniti della WHO in riferimento alla salute mentale siano riferiti a “neuropsychiatric disorder” che includono anche la popolazione affetta da patologie non sempre direttamente pertinenti all’ambito della salute mentale come epilessia, emicrania e demenze. Su questo allargamento del campo d’azione viene evocato il rischio derivante dalla spinta all’allargamento del mercato legata agli “interessi di Big Pharma”. “Ronald Kessler, della Harvard Medical School, sostiene infatti che, ad esempio, negli USA 63% psicofarmaci prescritti a persone che non ne avrebbero bisogno […] mentre il consumo di antidepressivi in Francia eccede il numero della popolazione”.
Come trovare una mediazione? “Da una parte dobbiamo estendere generosamente il campo d’azione verso le gravi disabilità e la prevenzione reale, controllando rigorosamente di non aumentare la nozione di “casità” di trattamento evitando di diventare complici degli interessi dell’industria”.

Di fronte a questa sfida, conclude Saraceno, i servizi psichiatrici oggi devono trovare una mediazione tra una postura di impotenza e quella opposta, di onnipotenza. Per quanto auspicabile, non sempre è possibile avere servizi semplicemente potenti. In particolare, oggi, è in atto una regressione dal punto di vista culturale che sembrerebbe celare uno scivolamento verso il polo dell’impotenza. Tale scivolamento assumerebbe il suono delle parole spesso pronunciate da molti dirigenti sanitari: “non ci potete chiedere anche questo!”. Per recuperare la potenza che potrebbe caratterizzare i servizi di salute mentale occorrerebbe, afferma, partire dalla consapevolezza che ”non c’è riabilitazione in assenza della ricostruzione contrattuale della cittadinanza delle persone […] non c’è riabilitazione nell’intrattentimento; […]” e, con un riferimento alle parole di Papa Francesco, “riabilitazione è recuperare la santità della vita quotidiana”.
Come uscire quindi dalla trappola dell’impotenza ? “Concentrandosi sui determinanti sociali della salute mentale a livello micro, locale”. Non è compito della psichiatria modificare la società agendo direttamente sui determinanti sociale, tuttavia non è possibile immaginare la psichiatria come rimedio di tutti i mali. “Se una donna nera, povera, con più di due bambini con meno di 10 anni ciascuno ha 140 volte rischio di sviluppare una depressione maggiore e 600 volte il rischio di suicidio rispetto ad altri,[…] non saranno gli psichiatri a salvargli la vita, […] ma non dovrà ricevere più psichiatria, ma meno povertà, non saranno gli psichiatri a mandargli il pulmino per portare i figli a scuola ma si potranno attivare perché questo sia possibile”.

Conclude affermando la necessità, per recuperare una postura di potenza, di creare Centri di Salute Mentale che siano innanzitutto centri di salute e, in secondo luogo, basati sul modello di Medicina Centrata sulla Persona, modello che non attiene esclusivamente alla salute mentale.

Dopo un momento di confronto con il pubblico, con interventi da parte di dirigenti, operatori, familiari, utenti e universitari, riprende la parola la Dott.ssa Dirindin il cui auspicio è evitare che il quadro delineato rappresenti un “bel quadro, astratto che non cambia la nostra prassi quando torniamo a casa. […] Abbiamo tutti una responsabilità.” Riferendosi ad alcuni interventi dei dirigenti medici lascia l’ultima parola a Saraceno conclude risoluta “come operatori possiamo sentirci adeguati, c’è speranza, ma dobbiamo cambiare”.

Saraceno risponde brevemente agli interventi sottolineando la necessità, riportata anche dalla WHO, di occuparsi del problema delle prescrizioni da parte dei medici di base, stremati dalla mole di lavoro, non attraverso ulteriore formazione ma attraverso supervisioni “no training, but supervision”. Riporta lo sguardo degli operatori presenti spostandolo dalle criticità reali dentro cui si trovano a lavorare alle risorse e ai punti di forza esistenti e che è possibile mutuare dalle reali pratiche virtuose, già presenti sul territorio, fondate su accessibilità, continuità, radicamento sul territorio. Insiste sulla necessità di non aspettare che il cambiamento arrivi dall’esterno ma sulla possibilità di iniziare fin da subito un lento percorso che porti al cambiamento auspicato. “Ci troviamo davanti ad un restringimento del campo visivo e dei cuori. Dobbiamo riaprire gli occhi e i cuori […] di fronte alla regressione delirante verso la domiciliarità che rappresenta un abuso di risposte de-abilitanti. […] Non è necessario andare troppo lontani per trovare quel bell’ottimismo militante. […] Io, tra onnipotenza e impotenza preferisco l’onnipotenza, anche questo è un delirio, ma lo preferisco. […] Occorre costruire spazi di discussione e continue situazioni di confronto. […]. In Italia c’è una storia di cattedratici di psichiatria che ha sparato contro la psichiatria sociale quando era il tempo, […] oggi ogni psichiatra ha la società di psichiatria che si merita. […] Dobbiamo avere il coraggio di parlare degli effetti collaterali dei farmaci non solamente dove ci applaudono ma anche dove ci fischiano. […]” Conclude, riprendendo un auspicio riportato nel suo ultimo libro e che ci impegneremo a rendere prassi del nostro lavoro:“Bisogna riaprire stagione di conflitto, alzare livello del confronto”.

[1] Barbato, A., Terzian, E., Saraceno, B., Barquero, F. M., & Tognoni, G. (1992). Patterns of aftercare for psychiatric patients discharged after short inpatient treatment. Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology, 27(1), 46-52.

[2] Hopper, K., & Wanderling, J. Revisiting the developed versus developing country distinction in course and outcome in schizophrenia: results from ISoS, the WHO collaborative followup project. Schizophrenia bulletin 2000; 26(4), 835-846.

[3] Goldberg D, Privett M., Ustun B, Simon G, Linden M. The effects of detection and treatment on the outcome of major depression in primary care: a naturalistic study in 15 cities. Br J Gen Pract 1998; 48(437), 1840-1844.

[4]Jablensky A, Sartorius N, Ernberg G, et al. Schizophrenia: manifestations, incidence and course in different cultures A World Health Organization Ten-Country Study. Psychological Medicine Monograph Supplement 1992; 20, 1-97.

[5]Strauss JS, Carpenter WT. The prediction of outcome in schizophrenia: II. Relationships between predictor and outcome variables: A report from the WHO International Pilot Study of Schizophrenia. Archives of General Psychiatry 1974; 31(1), 37-42.

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