[L’opera di cui sopra, “The tree of life” di Keith Haring, si può trovare a questo link].

L’atto umano è un testo potenziale

e può essere compreso (come atto umano e non come azione fisica)

soltanto nel contesto dialogico del suo tempo […].

M. Bachtin

Con l’espressione pratiche collaborative all’interno dei servizi di cura e tutela si intende un insieme di approcci il cui scopo può essere riassunto come segue: tentare un superamento delle gerarchie del sapere pur rimanendo dentro le gerarchie organizzative dei ruoli, ponendo l’essere umano al centro del processo. L’essere umano viene visto come ‘conoscente’ (conosce indipendentemente dalla posizione o dal ruolo che assume, è ‘esperto per esperienza’), e non come essere che già conosce in virtù di un ‘sapere superiore’, come nel caso di operatori e specialisti [8]. Si sta facendo riferimento a prassi che esprimono una tensione a tradurre in pratica, nella dimensione operativa del lavoro psico-sociale o del percorso di cura, il principio della partecipazione, che a volte, seppur condiviso a livello teorico, non viene declinato nella pratica: esse mirano in sostanza a riequilibrare il potere in una maniera realmente democratica e rispettosa degli esseri umani.

Le pratiche collaborative rappresentano sia un approccio a un sistema di erogazione dei servizi sia una pratica terapeutica, ed esprimono al contempo una visione del mondo, un paradigma culturale. Pur essendosi sviluppate in contesti e periodi diversi, si possono rintracciare alcune basi teoriche comuni: il “Milan Approach” (modello sistemico di terapia familiare e intervento in contesti relazionali), l’epistemologia relazionale di Gregory Bateson, gli approcci conversazionalisti (Anderson, Goolishian) e del costruzionismo sociale (Gergen, McNamee), i filoni della psichiatria fenomenologica e democratica (Borgna, Basaglia).

Questo insieme di pratiche porta con sé una rivoluzione epistemologica, nei termini di messa in discussione dei concetti di gerarchia e responsabilità, di critica alla qualità oppressiva di pratiche ancora molto comuni nel sociale, come quelle che è possibile talvolta osservare nell’ambito dei servizi psichiatrici e della tutela minori. Il coinvolgimento e la pariteticità sono al contempo premesse ed esiti dei processi relazionali che si instaurano: le persone marginalizzate con cui spesso lavorano i servizi non si riconoscono in primis un ruolo attivo e partecipativo, perché la cultura che permea i servizi stessi li relega in posizione di oggetti, la cui responsabilità del proprio benessere dipende da altri, più ‘esperti’ di loro.

Si sta toccando qui uno dei temi centrali all’interno delle riflessioni e delle prassi che caratterizzano lo Sportello TiAscolto, quello del potere e della sua ‘distribuzione’: tra le persone, nel contesto dei servizi di cura/riabilitazione/tutela, entro una cornice relazionale, comunicativa e simbolica che già in partenza è asimmetrica (operatore/terapeuta/medico/specialista da una parte, individuo/gruppo/famiglia dall’altra); tra servizi, istituzioni, realtà e attori sociali; entro il tessuto socio-economico e politico più ampio.

Secondo i Determinanti Sociali della Salute (WHO, 2014), la salute mentale si distribuisce lungo un gradiente socio-economico: a ogni posizione sociale è associato probabilisticamente un livello di salute mentale determinato dalle condizioni di vita quotidiane dei soggetti. La pratica clinica e la psicoterapia, all’interno di questa prospettiva, rischiano di costituire un doppio pericolo per il benessere della popolazione: da una parte perché rischiano di relegare all’interno del setting clinico individuale i segni di una sofferenza talvolta frutto dell’incorporazione di strutture e processi sociali ingiusti; dall’altra, perché rischiano di alimentare le medesime dinamiche che mantengono le barriere, materiali ed economiche, alla piena autodeterminazione e partecipazione democratica delle persone (per un approfondimento si rinvia all’articolo pubblicato qui sul nostro sito).

La problematizzazione della spinta idealistica (utopica?) che anima le pratiche collaborative in direzione di una maggiore partecipazione, pariteticità ed inclusione delle persone nei loro percorsi di cura/tutela/promozione del benessere psicologico, è stata il nucleo intorno al quale si è sviluppata la discussione sorta durante il momento di formazione in cui il presente contributo è stato concepito.

Verranno di seguito riportati due esempi, l’Open Dialogue e il Family Group Conference, per meglio illustrare cosa si intende con l’espressione pratiche collaborative.

L’Open Dialogue (in italiano Dialogo Aperto) nasce e si sviluppa a Tornio, in Finlandia, nel 1984, nell’ospedale psichiatrico di Keropudas [2]. Ha origine come metodo di trattamento e gestione efficace delle crisi in ambito psichiatrico, ed evolve nel corso del tempo in un approccio di comunità alla salute mentale. L’Open Dialogue è stato inoltre riconosciuto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità come prassi non solo efficace, ma anche economicamente sostenibile per la salute mentale, oltre ad essere pratica centrata sulla persona e sulla tutela dei diritti umani.

Il modello delle Family Group Conference (in italiano “riunioni di famiglia”) trae origine in Nuova Zelanda alla fine degli anni ‘80, nell’ambito della tutela minori, come tentativo di contrastare forme di razzismo istituzionale e controbilanciare il potere dei professionisti, valorizzando la cultura tribale maori (che attribuisce importanza ai legami familiari e di comunità) e promuovendo la capacità della famiglia allargata di prendersi cura dei suoi membri più fragili, anche in situazioni di difficoltà [9]. Nelle situazioni di rischio, la legge (entrata in vigore nel 1989) prevede che venga offerta alla famiglia la possibilità di prendere parte a una FGC, il cui scopo è coinvolgere la più ampia rete possibile di relazioni significative nella definizione di un progetto per il benessere dei minori. Il FGC  può essere efficacemente descritto come un processo di empowerment familiare, con una particolare attenzione al rispetto delle differenze culturali, all’inclusività e al reale coinvolgimento delle famiglie (intese come famiglie allargate, con relative reti sociali e informali) nella co-creazione dei progetti e dei percorsi che le riguardano.

Le prassi collaborative, non coincidendo con un modello teorico specifico ma incarnando un approccio alla relazione con l’Altro e una visione del mondo, trovano utilizzo in ambiti diversi, dalla scuola e dai contesti educativi alla salute mentale, dalla tutela minori alla giustizia riparativa, al lavoro con persone anziane o con disabilità. E’ possibile evidenziarne alcuni aspetti comuni, tra cui:

  • l’incontro con le persone nel loro contesto di vita (es. casa/abitazione) o nel contesto che li fa sentire più a loro agio;
  • la considerazione dell’altro come non disfunzionale/sbagliato/cattivo, ma come una persona sofferente, che sta attraversando una fase di crisi/difficoltà;
  • la trasparenza (che può essere sintetizzata con l’espressione nothing about us without us) : ovvero partecipazione ad ogni momento di incontro/rete/equipe da parte di tutti e tutte (persone, operatori, specialisti, figure significative, etc.);
  • l’attenzione alla relazione e alla coesione del gruppo: fare gruppo anche con le persone, non solo tra operatori ed esperti; avere cura del gruppo non significa ricercare l’accordo a tutti i costi, ma aprire il dialogo e stare in posizione di incertezza, rinunciando all’idea di controllo e avendo fiducia nel processo in atto;
  • utilizzare e mantenere un linguaggio accessibile e comprensibile per tutti;
  • tutelare la dignità di ogni partecipante e garantire la partecipazione effettiva alle decisioni di ciascuno;
  • garantire la reperibilità degli operatori (o dell’operatore di riferimento).

L’interrogativo che ci si pone è come rendere davvero efficaci tali approcci nel contesto della cultura organizzativa che permea i servizi e le istituzioni che si occupano di salute e benessere mentale in Italia, cultura che è qui sempre più orientata nel senso di una medicalizzazione e patologizzazione del disagio mentale e della sofferenza psicologica, concepiti come legati a processi intrapsichici e quindi relegati a setting di cura per lo più individuali. Pertanto, come detto all’inizio, l’esperienza stessa del coinvolgimento e di una autentica inclusione delle persone nei loro percorsi di cura/riabilitazione/tutela rappresenta in molti casi un’eccezione, quando non una premessa o una condizione che può ostacolare lo stesso svolgersi del percorso, nei termini di una effettiva adesione da parte degli operatori dei servizi e di una reale condivisione da parte dei cosiddetti ‘utenti’, non abituati a sentirsi soggetti partecipi e dunque responsabili del loro stesso benessere.

Come operatori e operatrici, sebbene non condividiamo un tale paradigma culturale-epistemologico, tendente alla patologizzazione e medicalizzazione della sofferenza psichica, oltre che alla passivizzazione e de-responsabilizzazione dell’essere umano, non possiamo evitare di situarci e posizionarci rispetto ad esso, prendendone le distanze e con posture critiche, ma sempre con la consapevolezza di essere parte di uno specifico sistema, pena il rischio di riprodurre inconsapevolmente le medesime dinamiche che mantengono o amplificano le diseguaglianze sociali ed economiche nell’accesso a percorsi di cura e ad opportunità di benessere.

Ci si è chiesti dunque come fare sì che tali approcci cosiddetti collaborativi risultino realmente generativi, non volendo rinunciare alla loro carica trasformativa ma al contempo evitando di correre il rischio di scivolare in letture ingenue che non tengano conto della differenza e specificità di ciascun contesto di applicazione: difatti, i potenziali ostacoli non sono soltanto di ordine culturale-simbolico, ma sono altresì legati al tema della trasferibilità, connessa all’organizzazione dei servizi e al loro funzionamento. Ad esempio, l’Open Dialogue ha visto una sperimentazione in altri Paesi europei, quali Norvegia, Danimarca, Svezia, Germania, Inghilterra, e negli Stati Uniti. Anche in Italia, nel 2014, alcuni dipartimenti di salute mentale e servizi sociali  hanno iniziato a organizzare percorsi formativi volti a una riorganizzazione dei servizi e delle pratiche in senso dialogico. In risposta al Piano Nazionale della Prevenzione 2014 – 2018 che inseriva tra i suoi obiettivi prioritari la salute mentale, assegnando alle strutture sanitarie preposte (Dipartimenti di Salute Mentale, Dipartimenti di Prevenzione, Servizi Territoriali) il compito di intervenire precocemente sui primi sintomi di crisi psichiatrica, l’ASL TO1 aveva presentato al Ministero della Salute un progetto di sperimentazione biennale avente come obiettivo la valutazione della trasferibilità (prassi operativa e organizzativa) dell’Open Dialogue nei DSM italiani (le regioni coinvolte sono state Piemonte, Liguria, Marche, Lazio, Sicilia). Nella pratica, gli esiti della sperimentazione hanno rilevato che: per quanto a livello clinico ci fosse una parziale aderenza al modello Open Dialogue, le maggiori difficoltà incontrate dagli operatori e il maggior ostacolo ai fini della trasferibilità erano identificate a livello organizzativo, cioè il contesto del servizio che doveva adottare e implementare il modello. Tali elementi, relativi al servizio che adottava ed erogava gli interventi clinici, sono anche quelli che hanno ostacolato in misura maggiore la possibilità di un’aderenza fedele al protocollo.

Durante l’incontro di auto-formazione nel quale il presente contributo è stato concepito (momento che caratterizza l’operatività dello Sportello TiAscolto), sono emerse posizioni diverse riguardo ai temi del potere, della responsabilità e della partecipazione. Si è ragionato per lo più sulla effettiva criticità, nel lavoro clinico e psico-sociale, di tradurre in pratica l’aspetto della trasparenza, specialmente se intesa in senso totale, ovvero come coinvolgimento della persona ad ogni momento di riunione, equipe, incontro di rete, progettazione e definizione di un percorso/intervento. Da questo punto di vista, il rischio possibile, per gli operatori, è quello di interpretare gli aspetti caratterizzanti l’insieme variegato delle pratiche collaborative come una sorta di principi di un modello o di un protocollo: è chiaro che, in tal caso, il loro utilizzo si rivelerebbe non solo inefficace ma anche, in talune situazioni, dannoso e tendente a rinforzare reciproche premesse pre-esistenti (ad esempio, il triangolo “vittima-carnefice-salvatore” nella tutela minori, per il cui approfondimento si rimanda a [8], capitolo 4).

Non si tratta quindi di negare che gli operatori abbiano un potere (lo detengono solo per il fatto di avere un ruolo entro un’istituzione, e di vedersi attestato lo status di ‘esperti’), ma di riconoscere che esistono diversi livelli di responsabilità e di conoscenza (il sapere esperienziale che caratterizza gli ‘esperti per esperienza’): significa pertanto riconoscere il diritto di partecipazione delle persone nei percorsi di cura che li riguardano. Per evitare di idealizzare le pratiche collaborative, sarebbe forse più utile considerarle non in contrapposizione ma in un rapporto di complementarità con le pratiche più tradizionali delle istituzioni: non in alternativa, ma in connessione e in un rapporto di tensione dialogica, come possibile contaminazione in grado di avviare nel tempo processi trasformativi. Ad esempio, nell’ambito della tutela minori, dove non è possibile rinunciare alla funzione di controllo e protezione del minore, è al contempo necessario pensare anche in termini di cura/sostegno/riabilitazione della famiglia, ipoteticamente separando la funzione di controllo da quella di cura, affidandole  a servizi con funzioni distinte.

D’altra parte, ogni trasformazione richiede una crisi. Per compiere il salto di paradigma è necessario mettere in discussione le teorie implicite utilizzate, mettere in discussione alcune premesse disfunzionali del lavoro sociale che legittimano pratiche oppressive, che oltre ad essere violente generano paradossi che minano l’efficacia degli interventi. I cambiamenti istituzionali e sociali sono più lenti dei cambiamenti di pensiero: occorre quindi partire da questi ultimi.

L’atto del partecipare, oltre a rientrare nei diritti umani, è un atto terapeutico e trasformativo in sé, per le persone, così come per gli operatori: per guarire dall’idea di dover curare a tutti i costi e dalla hybris di pensare di sapere cosa sia meglio per l’altr*.

Questo insieme di prassi rimanda altresì all’idea (condivisa e promossa, ad esempio, anche dagli approcci di salute comunitaria come “One Health”, “Integrated Community Care” a livello internazionale, dalle realtà che aderiscono alla “Rete di Psicoterapia Sociale” a livello italiano) che il benessere sia una responsabilità condivisa, che le reti e i legami comunitari forniscano una cornice entro cui non solo ricercare il senso del disagio ma anche strategie, supporto e possibili soluzioni. In ultimo, all’idea – paradossalmente la più eversiva, nell’attuale panorama socio-economico dominato dal neo-liberismo – che la collaborazione tra esseri umani sia più efficace della competizione.

BIBLIOGRAFIA:

  1. Anderson H., Goolishian H., “Il cliente è l’esperto. Il ‘non sapere’ come approccio terapeutico” in McNamee, Gergen (1998), pp. 39-54
  2. Arnkil T. E., Seikkula J., “Metodi dialogici nel lavoro di rete” (Erickson, 2013)
  3. Bachtin M. “Estetica e romanzo” (Einaudi, 1979)
  4. Barone R. (a cura di), “Benessere mentale di comunità. Teorie e pratiche dialogiche e di comunità” (Franco Angeli, 2020)
  5. Bateson G., “Verso un’ecologia della mente” (Adelphi, prima ed. lingua italiana 1977)
  6. Bertrando P., “Il terapeuta e le emozioni. Un modello sistemico-dialogico” (Cortina, 2014)
  7. Cecchin G., Lane G., Ray W. A., “Verità e pregiudizi” (Cortina, 1997)
  8. Ciliberto J., Piccinin M. (a cura di), “Le pratiche collaborative nei servizi di cura e tutela” (Carocci, 2022)
  9. Maci F., “Lavorare con le famiglie nella tutela minorile. Il modello delle family group conference” (Erickson, 2011)
  10. Seikkula J., “Il dialogo aperto. L’approccio finlandese alle gravi crisi psichiatriche” (Giovanni Fioriti Editore, 2014)
  11. World Health Organization. Social determinants of mental health. World Health Organization (2014)
  12. https://www.dors.it/page.php?idarticolo=210
  13. https://sportellotiascolto.it/2019/12/22/setting-psicologia-clinica-disuguaglianze-determinanti/
  14. https://www.cdc.gov/onehealth/index.html
  15. https://www.who.int/news-room/questions-and-answers/item/one-health#:~:text=What%20is%20’One%20Health’%3F,people%2C%20animals%20and%20the%20environment
  16. https://transform-integratedcommunitycare.com/
  17. https://www.retepsicoterapiasociale.it/

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