A quarant’anni dall’entrata in vigore della cosiddetta “Legge Basaglia” può essere opportuno fare un’analisi per verificare se e come, oltre alle concrete applicazioni della legge, il messaggio e i valori che hanno mosso il percorso poi sfociato nel licenziamento della Legge 180, viene portato avanti anche da noi psicologi.
Leggendo Le Conferenze Brasiliane di Franco Basaglia, in particolare il paragrafo sulla partecipazione popolare all’interno de “Le Conferenze a Belo Horizonte”, si possono scorgere diversi punti importanti; uno tra questi è la possibilità che le persone, come soggetto collettivo, partecipino attivamente alla propria assistenza, alla propria cura sia per quanto concerne la definizione delle politiche (come ribadirà successivamente la Carta di Ottawa del 1986) che per quanto riguarda la definizione dei propri percorsi di cura, come ricorda ad esempio l’approccio dell’Open Dialogue.
Prima di approfondire cosa si intenda per partecipazione popolare, è fondamentale contestualizzare la lotta di Basaglia, sempre insieme epistemologica e pratica, il cui sforzo, mosso dalla necessità di dar voce all’individualità altrui, è teso contro l’oggettivazione della persona, processo che egli non vede operare solo in psichiatria ma più generalmente in tutti processi di produzione di sapere medico, e che forse possiamo agire pervasivamente anche oggi in alcuna psicologia molto attenta della centralità della diagnosi:
“Un cancro, una polmonite, un’appendicite sono la ragione del ricovero di una persona in ospedale, il disturbo del comportamento sociale, l’asocialità sono la ragione dell’internamento nel manicomio. […]La malattia è stata fatta coincidere col disturbo del comportamento, corpo organico e corpo sociale sono stati omologati. Sia il malato del corpo organico che il malato del corpo sociale non possono esprimere la loro soggettività malata[…] In medicina, la donna che ha un tumore dell’utero “è” un tumore dell’utero, anche se tutti i tumori sono uguali, ogni tumore si esprime soggettivamente in qualche modo, ma poi diventa soltanto un caso clinico, oggettivato dal potere medico […]. Incarcerato in una malattia costruita e definita, la medicina risulta una scienza apparentemente neutrale ”
[F. Basaglia].
Vivendo il disagio mentale in questo modo, si rischia di categorizzare le persone e arrivare all’emarginazione identificando l’individuo con la sofferenza che egli si trova a vivere e privandolo della possibilità di scorgere il significato dietro al suo disagio.
Ai tempi di Basaglia il processo che portava l’individuo a diventare oggetto per sé e per la società era facilmente visibile nella brutalità della violenza agita all’interno delle istituzioni totali. Basaglia lo spiega in modo esauriente con le seguenti parole:
La persona che viene internata protesta per il suo internamento e la prima cosa che viene fatta è un’iniezione, se non viene legata con la camicia di forza. Comincia così la “carriera morale del malato di mente” che a un certo punto capisce che è meglio adattarsi agli ordini dell’istituzione, non ribellarsi. Si avvia così quel processo chiamato istituzionalizzazione: la persona, il folle incarcerato dalla e nella malattia viene incarcerato nell’istituzione, e in questo momento la persona sofferente diventa un oggetto dell’istituzione, docile come una bestia selvaggia addomesticata [F. Basaglia].
Oggi analogamente la psicologia clinica è chiamata ad interrogarsi sulla capacità di non “incarcerare” all’interno dei percorsi di cura i pazienti, che possono diventare, riprendendo Basaglia, “merce economicamente utile” all’interno di una relazione in cui, in presenza di un chiaro quanto spesso misconosciuto e taciuto conflitto di interessi (tra salute del paziente e profitto personale) il “profitto privato è un elemento antiterapeutico”.
Tale consapevolezza può essere d’aiuto ancor più oggi a fronte di una “psicologizzazione” della sofferenza che ostacola la consapevolezza del fatto che molta della sofferenza osservata affondi le sue radici all’interno di contesti di vita malsani (Compton, 2015; WHO, 2014) e in una cultura altamente patogena (Fromm, 1976). Tale individualizzazione del disagio, che riflette una visione chiusa, individualistica, della mente tipico della società neoliberista alimenta ed è alimentata da un’organizzazione societaria priva di spazi di socialità, condivisione e partecipazione alla vita della comunità.
Ora come allora, per superare questa visione individualizzata e privatistica della sofferenza che parcellizza le storie individuali appare necessario spostare il campo del discorso e dell’azione su un livello che riesca ad includere ognuna e ciascuna soggettività. Occorre un’opera di coscientizzazione rispetto al “diritto soggettivo alla salute”, il diritto di tutte e tutti a vivere una vita degna di essere vissuta (Sen, 2014). Solo a partire da questa consapevolezza è possibile avviare quel processo di “maturazione democratica della popolazione […] per cui i politici devono tener conto della vigilanza che la popolazione ha sul loro operato”. La popolazione può spogliare il tecnico del suo potere nel momento in cui “E’ il popolo che rivendica i propri diritti […] non è il paternalismo dello psichiatra buono che fa partecipare il popolo”.
E’ da qui, dalla vigilanza esercitata dai cittadini per veder tutelato il diritto alla salute, che nasce la possibilità di “un’”assistenza” nuova, nella quale ogni persona possa essere ascoltata e vista nella sua soggettività, nella sua storia di vita, per le sue sofferenze e le sue risorse; si possa prendere in esame tale sofferenza contestualizzandola nella globalità della persona, creando una relazione umana.
Pur nell’assenza di istituzioni in grado di suscitare pubblico scandalo per la propria violenza il medesimo discorso può valere per una certa psicologia, della quale si riscontrare la fluida, pervasiva e ormai unanimamente accettata sottile violenza dell’esclusione dell’improduttiva marginalità.
Se non c’è profitto pare non poterci essere psicologia così come se il volto della sofferenza presenta connotati spiccatamente sociali difficilmente psicologizzabili. “Chi non ha denaro per la terapia non esiste” affermava Basaglia.
Pur essendo rare le rivendicazioni collettive in favore del diritto alla salute mentale (se non in relazione ai residui della violenza manicomiale) la recente entrata in vigore dei nuovi LEA sull’assistenza psicologica costituisce un punto di partenza fondamentale per la costruzione di nuovi spazi di partecipazione attiva della cittadinanza.
La follia, così come la sofferenza, costituisce un’esperienza umana. Non è possibile escludere l’esperienza del folle da questi spazi di partecipazione né di chi “non ha i mezzi per esprimersi”. ”L’organizzazione della società deve dare la possibilità a tutti di vivere”. Solo quando “tutti partecipiamo di un problema che è nostro e che […] viene ad essere un patrimonio reale della gente” è possibile dare vita a tale tipo di relazione. “Dobbiamo creare un’altra teoria. Ma un’altra teoria può sorgere solo dalla pratica nuova”.
Con magistrale generosità, Basaglia mette in evidenza quanto il cambiamento a cui ha dato vita sia imprescindibile dalle considerazioni rispetto al proprio ruolo. La situazione è omologa per quel che riguarda il ruolo dello psicologo. Esattamente come lo psichiatra, anche lo psicologo si trova spesso ad “essere organico alla classe dominante” perchè spesso “risponde ai problemi di quella piccola parte di popolazione che possiede i mezzi per difendersi”. “La rivoluzione dentro di noi” passa attraverso “una situazione anomica, una perdita d’identità” e tale “identità si riacquista nel momento in cui si trova la possibilità di conoscere i bisogni reali, quotidiani della gente, non quelli artefatti. A questo punto comincia una nuova pratica”.
Lo psichiatra viene concepito come un essere umano, uno che può e dovrebbe mettere in discussione se stesso, esattamente come crediamo dovremmo concepire noi stessi in relazione ai molteplici bisogni dei cittadini.
Io penso che il mondo, quindi anche la psichiatria, non cammina se l’egoismo, l’ingiustizia sono il primo significato dell’esistenza. Io non credo che noi potremo affrontare né risolvere il problema della psichiatria se non risolviamo prima quello che è il nostro problema interiore. Questo è molto difficile e molto complicato.
Esplorando se stesso può realizzarsi un militante.
Come dice Basaglia, ‘qui comincia la vera lotta, interiore, qui comincia il discorso reale del militante come persona che afferma la propria individualità in rapporto agli altri rispettando l’individualità degli altri’. Se ciò non avviene, sarà una lotta già persa perché non avviene un vero cambiamento.
Per attuare tale cambiamento non possiamo che tenere conto del ruolo della comunità, della sua storia e delle storie degli attori che la compongono, senza le quali è impossibile dare vita ad una reale trasformazione politica che non si riveli simile al contrario della situazione precedente: cambierà il padrone ma la situazione resterà la stessa.
Le parole di Basaglia sono senza dubbio ancora molto attuali e hanno la capacità di mettere in discussione la relazione tra la società e la follia; la società e la sofferenza; tra sapere e potere; tra ruolo e persona; tra istituzioni e soggetti; individuo e società/comunità svelando e creando contraddizioni e tensioni vitali per stimolare una reale partecipazione popolare che, sola può portare alla costruzione di una società più giusta e giungere ad un benessere sociale: quando una società raggiunge un buon equilibrio di benessere, anche i vari individui possono stare meglio.
BIBLIOGARFIA:
Compton, Michael T., and Ruth S. Shim. “The social determinants of mental health.” APA (2015)
Fromm, E. “Avere o essere?[To have or to be?].”Milano: ETAS Universale (1976).
Sen, Amartya. Lo sviluppo è libertà. Edizioni Mondadori, 2014.
World Health Organization. “Social Determinants of Mental Health” (2014)