C’è una differenza tra il prete e lo psicoanalista.
Io non sono cattolico se non anagraficamente però
tra lo psicoanalista e il prete preferisco il prete:
perchè mentre il prete confessa
tutto il mondo,borghesi e proletari,
lo psicoanalista confessa solo i borghesi”
F.Basaglia
Talvolta la storia concede opportunità preziose per mettere in luce identità e valori delle persone. Questo vale tanto per gli individui quanto per i gruppi sociali, quali gli psicologi ad esempio, o tutti coloro che, una volta iscritti ad un albo, si fregiano di questa appartenenza in virtù della quale agiscono e reagiscono agli eventi più disparati.
In questo periodo la storia è stata così generosa da regalarci due opportunità che ci consentono di abbozzare, grazie all’osservazione delle reazioni agli eventi, un’analisi della visione del mondo dei nostri colleghi, sopratutto gli psicologi clinici, e di quali siano i valori che guidano l’operato della categoria cui, nonostante tutto, apparteniamo. Il risultato è scoraggiante e per questo avvertiamo la necessità di condividere con tutta la comunità, quella professionale ma non solo, alcune riflessioni nella speranza di poter contribuire ad arricchire il dibattito e, laddove inesistente, facilitarne l’avvio.
Il primo fatto: con il Decreto 12.01.17 pubblicato in Gazzetta il 18 marzo 2017 sui Nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) viene riconosciuto il diritto alle persone (minori o adulti), alle coppie, alle famiglie in situazioni di “disagio psicologico” di ricevere un intervento psicologico. “Gli interventi psicologici diventano “diritti esigibili”, finalmente alla pari con tutti gli altri bisogni di salute” afferma Fulvio Giardina, il presidente del CNOP. La misura muove dalla necessità di dare risposte più appropriate ed integrate ai bisogni di salute della popolazione allargando così in modo significativo le loro tutele ed diritti. Si tratta di un provvedimento potenzialmente molto importante di salute pubblica, laddove alle attuali generiche dichiarazioni si riesca a dare seguito una concreta applicazione. Inoltre il 22 Marzo 2018 viene firmato il decreto attuativo relativo alla legge 3 del 2018 sul riordino delle professioni sanitarie: la professione di psicologo è annoverata tra le professioni sanitarie, attraverso cui si da piena applicazione all’articolo 32 della Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Il presidente Giardina ricorda che diventare professione sanitaria significhi da un lato offrire maggiori tutele agli utenti, dall’altro acquisire una forte consapevolezza del proprio ruolo sociale.
Fin qui tutto bene, anzi benissimo.
Il secondo fatto si muove su una dimensione meno istituzionale, quindi potenzialmente più vicina alla categoria degli psicologi clinici, tradizionalmente lontana dalle logiche istituzionali. Si tratta dell’avvento del 7 Aprile, oggi. E’ la giornata europea di azione contro la commercializzazione della salute, in Italia inserita all’interno della campagna “DICO 32! SALUTE PER TUTTE E TUTTI! UNA CAMPAGNA PER IL DIRITTO ALLA SALUTE“ a cui l’anno scorso, insieme alla Rete di Psicoterapia Sociale, avevamo trovato la forza e la motivazione per partecipare alla costruzione di un momento di confronto collettivo con altre realtà cittadine estendendo l’invito ai colleghi.
Fin qui ancora tutto bene: l’istituzione riconosce il valore sociale della nostra professione e cittadini di tutta europa si riuniscono simbolicamente e letteralmente per unire gli sforzi e le progettualità per affermare la necessità che la salute, alla luce delle sempre crescenti disuguaglianze, non possa essere trattata come un merce e lasciata all’iniziativa mercantilistica privata.
Provando a guardare la nostra professione dalla lente di questi crudi fatti emerge però un’immagine tutt’altro che gradevole ai nostri occhi, immagine che permette di meglio comprendere le allusioni di Basaglia (1979) sulla “multinazionale della psicoanalisi” (e che oggi potremmo estendere a buona parte della psicoterapia) e ancor meglio le motivazioni profonde che hanno portato alla nascita del nostro servizio.
La psicologia clinica, oggi, vive una condizione di grandissima povertà, da molti punti di vista.
La prima povertà a cui ci riferiamo è di tipo economico. Non esistendo una psicologia clinica disincarnata dalle persone che le danno forma è purtroppo noto quanto gli psicologi clinici, sopratutto i giovani e pur in presenza di eccezioni, versino nella maggior parte delle situazioni in condizioni economiche profondamente precarie. L’aumento vertiginoso del numero degli psicologi clinici, delle scuole private di psicoterapia, non aiuta a gestire il problema. La preoccupazione per il proprio presente e il proprio futuro è il sentimento prevalente che non riesce a trovare un contenimento né all’interno del “libero” mercato, nonostante la frequente e frenetica corsa alle variegate strategie di posizionamento sul mercato, nè tantomento all’interno delle istituzioni di categoria né ancor meno nella percezione di un welfare robusto e protettivo. Tale povertà di tipo materiale e tale precarietà e insicurezza, nonostante la narrazione dominante, sono legate più ad una contingenza storica sfavorevole e a politiche scellerate che non ad una pigrizia e indolenza individuali. Tuttavia tale povertà inaridisce gli animi, impoverisce il cuore e indebolisce la possibilità di sentirci, psicologi e non psicologi, parte della stessa comunità. Quella che pensiamo essere la nostra precarietà ci spinge ad occuparci dei nostri problemi, della nostra categoria professionale. Questo comportamento egoistico alimenta e viene alimentato da una cultura profondamente individualistica molto diffuso nelle ricche ed opulente società odierna e profondamente nociva dal punto di vista psicologico.
Le preoccupazioni legate alle condizioni socio-economiche degli psicologi, oggi, sono così pervasive che impediscono di guardare al di là del proprio, misero, orticello. Sembra essere impossibile per gli psicologi clinici aprirsi con curiosità e compassione a ciò che accade là fuori nel mondo se non nella misura in cui questo arrechi dei vantaggi immediati alla propria categoria. Il criterio di appartenenza diventa in questo modo una gabbia. Sotto questo punto di vista, potremmo dire che gli psicologi clinici, paladini dell’empatia dentro il setting clinico, sembrano essere deficitari (quindi doppiamente poveri o semmai impoveriti) della capacità di mettersi con compassione e amore nei panni altrui, degli altri cittadini, una volta varcata la porta dello studio privato.
Ne è testimonianza la moltitudine di commenti su Facebook digitati dai colleghi una volta usciti dallo studio dentro cui sembra essere rimasta impigliata la tanto idolatrata capacità empatica: è eloquente l’assenza totale di qualsiasi espressione di gioia che lascia spazio solo al freddo sarcasmo, accalorate rivendicazioni, dubbi e timori per le conseguenze negative sulla categoria e perplessità relative alla complessa applicazione delle norme licenziate.
Il modo in cui le difficoltà personali e di categoria si trasformano in disinteresse per la cosa pubblica, per la salute pubblica, per la tutela dei più elementari diritti, è disarmante.
Tali difficoltà trasformano il nostro stesso sguardo, il nostro cuore, ci rendono diffidenti del prossimo.
L’Altro non esiste e con esso è scomparso l’amore da cui potrebbe essere investito. Ci interroghiamo se, in quanto professionisti della relazione, siamo in grado di riconoscere la differenza tra l’Altro e il Sè, i confini tra “il mio”, “il tuo” (e sopratutto la possiblità di costruire “il Nostro”) ricordandoci che tutte le norme licenziate non sono volte alla tutela della categoria (funzione di pertinenza degli Ordini) ma della cittadinanza e dei suoi bisogni di salute, finalmente riconosciuti. Questa constatazione sembra non animare alcun sentimento in noi.
Una visione strategica, lungimirante, in cui il tuo diritto all’assistenza psicologica può costruire insieme a il mio diritto ad una vita dignitosa, un nostro spazio di incontro per una rivendicazione condivisa, sembra esserci preclusa, abbandonata nel momento in cui viviamo il libero mercato come unico spazio di manovra, lontano dalle istituzioni, più o meno consapevolmente spaccando la società in fortunati clienti per fortunati professionisti e svantaggiati clienti che dovranno rivolgersi alle istituzioni pubbliche ormai lontane dal nostro interesse e gravate da pesanti definanziamenti, spesso a favore della sanità integrativa.
Forse è per questo che sono pochissimi gli psicologi in Italia che stanno partecipando alla campagna Dico32 e tantomeno alla giornata del 7 Aprile, una giornata che, nella misura in cui viviamo la professione di psicologi clinici all’interno dello spazio della libera professione, mette in discussione le modalità tramite cui questa viene immaginata e vissuta. Non solo.
Il 7 Aprile rappresenta una radicale messa in discussione dei presupposti stessi a partire dai quali la psicologia clinica deve essere svolta necessariamente all’interno libero mercato, così come siamo abituati a pensarla.
Effettivamente per la maggior parte dei liberi professionisti la salute è, senza mezzi termini, una merce; così come la formazione per molti colleghi è una merce. Entrambe, formazione e salute mentale sono, nei fatti, inaccessibili per alcuni e fonte di crescente profitto e prestigio per altri.
Non potendo accedere a percorsi psicologici così come formativi, si è tagliati fuori dal mercato della formazione così come quello della cura.
Il discorso dominante all’interno della categoria, sempre volto alla tutela della “dignità professionale”, è inflessibile; il diritto ad una formazione di qualità che conceda a ciascuno le medesime opportunità di sviluppo personale e il diritto alla salute, ad una vita degna a cui poter conferire un valore, sono intesi come problemi dei “consumatori” e chi non riesce a vedere tutelati tali diritti dovrà adoperarsi per adattarsi alle leggi naturali e spietate del mercato.
“Non possiamo prenderci carico-sostengono alcuni-delle lacune dello stato”. Effettivamente no, non sarebbe giusto, non è e non può essere responsabilità nostra, ma l’indifferenza verso le inevitabili e ingiuste disuguaglianze e verso lo stato di salute della popolazione (che invece tanto ci allarma, quando si tratta di indurre fette crescenti della popolazione a consumare i mille servizi, creando bisogni inesistenti funzionali esclusivamente al nostro profitto), è responsabilità nostra e la popolazione lo avverte, lo sente e, forse a ragione, per questo ci teme, come si teme un predatore. Teme la nostra brama, la nostra avidità, la nostra autorefenzialità, la nostra miseria umana, si sente trattata come un oggetto, ingannata.
E allora ci domandiamo se, come membri appartenenti alla nostra categoria professionale, il graduale definanziamento del welfare e della sanità pubblica, ci stiano veramente a cuore o meno perché il sottile inquietante non-detto sembra essere: “Se non ne ricavo alcun vantaggio, non mi interessa“. Probabilmente l’indebolimento del Sistema Sanitario Nazionale può aprire spazi di mercato molto redditizi per alcuni colleghi che, nel migliore dei casi ignari dei processi che stanno alimentando, si avvicinano alle Assicurazioni private e alla Sanità integrativa.
Fortunatamente, come psicologi clinici, come psicoterapeuti e come cittadini responsabili, sappiamo che è possibile lavorare diversamente per costruire una comunità anche professionale differente. E’ possibile essere consapevoli dei processi sociali a cui diamo vita e che muovono il nostro sentire e il nostro operare. Sappiamo però che ogni nostra azione, che lo vogliamo o meno, ha un impatto sulla realtà che circonda non solo noi ma anche molte altre persone che ancora non conosciamo. Non abbiamo facili ricette per conciliare i nostri bisogni con i bisogni di salute della popolazione; occorre però discernere tra i nostri bisogni di autorealizzazione dalla brama di prestigio che porta al distaccato accumulo compulsivo di beni materiali superflui ma gratificanti e rassicuranti, tra “tutela della dignità professionale” e violenta indifferenza nei confronti dei bisogni della comunità di cui facciamo parte. Siamo sicuri dell’esistenza di persone e colleghi che con motivazione, caparbietà, sacrifici, coraggio e ricchezza di spirito stanno già, ogni giorno, provando a costruire un’identità professionale profondamente diversa che riesca a conciliare tutto questo.
Naturalmente nessuno è immune da errori ed è necessario un lungo percorso di messa in discussione della disciplina, delle sue pratiche, dei suoi valori, per liberarsi dai vecchi costumi e, passando da una situazione di anomia, finalmente iniziare costruire, per tentativi ed errori, un modo nuovo in cui poter dare forma ad una vita professionale per la comunità, insieme alla comunità, che riesca ad unirla invece che dividerla.
Per questo ci siamo riuniti oggi, il 7 Aprile, in plenaria insieme ai colleghi di Torino e Bolzano, per testimoniare la possibilità che un’alternativa esiste, sempre. Pur trattandosi di un incontro certamente autoreferenziale rispetto agli appuntamenti che oggi in tutt’Europa uniranno i cittadini nella partecipazione per la costruzione di una società più giusta, ritrovarci oggi per noi assume i connotati altamente simbolico che ci aiutano a ricordare la concreta possibilità di continuare a costruire un‘utopia pratica della realtà in cui, a partire dal nostro lavoro e da una rigorosa analisi sia personale che dei processi all’interno dei quali ci muoviamo, con gli strumenti tipici della nostra professione possiamo partecipare alla costruzione di un’alternativa a quella che Basaglia chiamava la “multinazionale della psicoanalisi” che accusava di rispondere “ai problemi di quella piccola parte della popolazione che possiede i mezzi per difendersi[…]. Chi non ha denaro per la terapia non esiste”.
Avremmo dovuto essere in piazza ma nessuno è perfetto, quest’anno costruiamo la nostra comunità provando a darle nuova forza e nuovo slancio, nella speranza di poter, negli anni a seguire, incontrare la comunità che ci circonda.
Basaglia, Franco, Franca Basaglia Ongaro. Conferenze brasiliane, 1979