«Quando ti vedo mi prostro davanti a te e alle tue parole,
vedendo la casa astrale della Vergine,
infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto
Ipazia sacra, bellezza delle parole,
astro incontaminato della sapiente cultura.»

Riceviamo da Ipazia e pubblichiamo volentieri nella speranza che ciascuno possa vivere in armonia con il proprio corpo.
Ipàzia (in greco antico: Ὑπατία, Hypatía, in latino: Hypatia; Alessandria d’Egitto, 350/370 – Alessandria d’Egitto, marzo 415[1]) è stata una matematica, astronoma e filosofa greca antica. Rappresentante della filosofia neo-platonica,[2] la sua uccisione da parte di una folla di cristiani in tumulto,[3] per alcuni autori composta di monaci detti parabolani,[4] l’ha resa secondo il teosofo Augusto Agabiti una «martire della libertà di pensiero».[5]
Noi occidentali dovremmo emanciparci dall’antico dualismo platonico soma – psiche o, il che è lo stesso, della moderna dicotomia cartesiana res extensa/res cogitans perché, come dice qualcuno, in esso risiede il cancro dell’esistenza, e ripartire dalla considerazione del corpo come sfondo fondamentale di tutti gli eventi psichici.
Quando mi capita di stare male ho l’impressione di non possedere l’esperienza dell’unità del corpo; esso tende a distruggersi in singole parti personalizzate, ognuna a sé, proiettate verso l’esterno come fantasmi. Sento il corpo schiacciato al pavimento, la testa staccata da esso guarda un corpo ingombrante, gli occhi guardano dentro, immanente il panico della caduta. Mi sposto sulla pianta dei piedi con molta attenzione perché il corpo è pesante rigido e quindi fragile. Miracolosamente riesco a salire i gradini dell’autobus, con stupore mi accorgo che non mi sono sbriciolata,la gente è la scena di un film. Quando rientro in me riacquisto l’immagine tridimensionale del mio corpo . Poiché per ognuno di noi il corpo non è solo il risultato di sensazioni e percezioni ma, anche di rappresentazioni non posso omettere la sociologia delle immagini corporee ossia la mia educazione. Ho ricevuto una rigida educazione cattolica con substrato maschilista; il corpo era fonte di peccato quindi di colpa, andava punito e castigato.
Ma andando più indietro, guardando il mio corpo fanciullesco, le natiche costrette tra le ginocchia di mio fratello, su scalinate complici all’interno di un cortile domestico e squallido; poi ancora violato dalla fame, le mascelle continuano a masticare durante il sonno, violato dalla vergogna e da tutte le declinazioni dell’umiliazione, sotto un cielo beffardamente bello nei suoi colori forti come l’acciaio, netti come la lama di un coltello, indifferente e solo come un passaggio a livello.
Sbuccio mandarini sul braciere l’immagine del racconto di me neonata affetta da meningite, mia madre piange come una pazza.
Con la coscienza di poi il corpo non è più origine del male ma la fonte di rappresentazione di cui la psiche si alimenta.
Durante la giovinezza dell’epoca delle passioni, ricordo che a partire dall’interno del corpo e precisamente da stimolazioni interne agiva una forza costante da cui non riuscivo a sottrarmi neppure con la fuga. Solo con il raggiungimento della meta vi era una eliminazione di tale eccitamento.
Se parto dalla considerazione che il mio corpo non è un mero corpo fisico una via di uscita la trovo. Il mio corpo si riconosce a partire dalla molteplicità delle esperienze quotidiane si svela come ciò che si inserisce nel mondo in definitiva è grazie al mio corpo che esiste il mondo.
Come dicono gli esistenzialisti, il corpo si espande, si temporalizza, si mondanizza. Con questa operazione sostituiamo alla tradizionale relazione <<anima – corpo>> la relazione << corpo- mondo>> dove il corpo è aperto intenzionalmente al mondo.