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Quello che sta per terminare è un anno simbolicamente importantissimo per chi si occupa di tutela della salute: 40 anni da Alma Ata e del suo contributo per lo sviluppo delle cure primarie; 70 anni del NHS, primo sistema sanitario universalistico, gratuito, finanziato tramite imposte ma anche i 40 anni della Legge 180, della 194 e, sopratutto, dell’istituzione del nostro SSN.
L’aspetto che maggiormente stupisce in queste ricorrenze è la difficoltà incontrata, oggi, nel riuscire a rinnovare, con lo stesso fiducioso slancio verso il futuro, gli impegni veicolati da questi traguardi storici: la tenacia che ha portato al raggiungimento di tali conquiste, lì sembra essersi esaurita, nella loro formalizzazione. Quelli che dovevano rappresentare punti di partenza per l’avvio di processi a venire rischiano di tramutarsi, oggi, in punti di arrivo, da difendere ad oltranza, rendendone inimmaginabile la possibilità di un effettivo rilancio.
Prendiamo Basaglia: promulgata la legge, il movimento di lotta di cui è stato catalizzatore sembra essersi sopito. Scambiato il prodotto del suo lavoro con l’intenzione e lo spirito da cui era mosso, il messaggio rischia di apparire, nella pratica, depotenziato, morto. Entrando nel discorso basagliano, alle origini di quell’intima viscerale sensazione di sdegno poi messa al servizio della lotta collettiva comunitaria emerge, su tutte, una ferma consapevolezza attorno a cui ruota ogni pratica: la salute non è pertinenza esclusiva della sanità; costituisce il prodotto di ciascuna organizzazione sociale, dei rapporti tra gli individui che questa rende possibili e dei processi che stratificano la distribuzione disuguale di salute, potere e risorse tra diversi gruppi sociali.
Dietro al rapporto di potere tra internato e psichiatra, si celano rapporti di sapere disuguale tra medico e paziente/cittadino e disuguali possibilità, vincoli e opportunità per diversi individui e gruppi sociali.
Il manicomio, nel suo manifestarsi, non è che uno dei simboli delle istituzioni che ostacolano le possibilità reali di godere di buona salute; veicola da una parte la spinta espulsiva del corpo sociale di alcuni membri da sé e dall’altra l’accettazione del mandato custodialistico dell’istituzione psichiatrica che, nella contenzione, riproduce indefinamente se stessa[2]. L’effetto sulla salute psicosociale degli individui, anche quando ammorbidito e umanizzato[1], è la “regressione istituzionale” legata all’esclusione dell’individuo dal proprio contesto naturale di vita. Questa regressione agisce, come in ogni istituzione totale[3] sottraendo il corpo-mente dell’individuo dai legami di senso e materiali con il contesto di vita che producono salute.
L’istituzione manicomiale costituisce l’espressione più chiara dell’incapacità di modulazione degli interventi rispetto ai bisogni del soggetto. All’interno di un contenitore indifferenziato venivano agiti interventi contenitivi indifferenziati ((bassissima variabilità dei pattern di cura) che portavano ad esiti indifferenziati[4]. Oggi l’inappropriatezza organizzativa di molti servizi riattualizza fenomeni di esclusione creduti superati conducendo spesso ad una cronicizzazione disabilitante: l’ipertrofia della componente residenziale (la cui gestione viene delegata al settore privato spesso in assenza di coordinamento con i servizi territoriali), utilizza più della metà[10] delle insufficienti risorse pubbliche regionali destinate alla salute mentale sottraendole ai servizi territoriali con ripercussioni in termini di accessibilità, sostenibilità economica del SSN e sottoutilizzo di interventi di comprovata efficacia[11]. La chiusura dei manicomi aveva riavvicinato il folle al tessuto sociale permettendogli di trovare una risposta reale ai propri bisogni[12]. Oggi occorre concentrarsi sulle politiche, in tutti settori (abitazione, istruzione, lavoro, mobilità, alimentazione, previdenza, inclusione), in grado di garantire reali possibilità di riabilitazione nel mutato tessuto sociale e un’autentica guarigione sociale[9] oltre che sui processi economici, culturali, sociali che governano il funzionamento dei servizi.
A fronte delle sempre più fini possibilità diagnostiche anche l’indifferenziazione dei pattern di trattamento sembra essere rimasta pressoché inalterata costituendo un fattore di rischio per l’efficacia dei servizi. Sempre più evidenze sottolineano in maniera incontrovertibile i danni, sopratutto a lungo termine, legati all’utilizzo di alcuni farmaci promosso dalle correnti abitudini prescrittive[14, 15]. Tuttavia la mancanza di risorse adeguate e sufficienti sembra obbligare[13] i servizi al ricorso a prescrizioni inappropriate. L’assenza di personale induce, in un efficientismo senza efficacia, a trattamenti indifferenziati, di bassa qualità e potenzialmente iatrogeni. Interessi economici e commerciali privati rendono poco trasparenti le scelte dei decisori, poco consapevoli le abitudini dei prescrittori e poco affidabili alcune evidenze confermando l’ipotesi di Basaglia per cui “il profitto privato è un elemento antiterapeutico”[12] di cui osserviamo la pervasività nociva.
Dopo quarant’anni dalle conquiste raggiunte, pur in forme differenti, i servizi psichiatrici rischiano di costituire un ostacolo alla realizzazione di una vita in salute. L’istituzione psichiatrica continua a rappresentare un determinante sociale di salute potenzialmente iatrogeno. Almeno quattro studi della WHO [5,6,7,8] testimoniano che non necessariamente il mancato riconoscimento della patologia e la mancata adesione al trattamento hanno un effetto negativo sul quadro clinico generale, sul grado di disabilità e funzionamento sociale e sulla recovery [9]. Lo scarto di esito in termini di grado di disabilità durante i follow-up tra chi vive in paesi con diverso livello di sviluppo economico potrebbe non essere funzione delle diversità socio-culturali tra paesi: essere “trattati” non condurrebbe necessariamente, nel lungo termine, ad un miglior stato di salute rispetto al non essere “trattati”.
Gli strumenti che si erano dimostrati efficaci per il raggiungimento dei traguardi collettivi sembrano oggi indisponibili, neutralizzati, spesso impensabili o sconvenienti per gli addetti ai lavori. La frammentarietà dei movimenti di utenti, familiari, operatori, cittadini, specchio di una diffusa difficoltà nel creare spazi collettivi necessari alla promozione di un cambiamento ostacola il costituirsi della spinta rivendicativa e propositiva necessaria ad una reale trasformazione. La distanza tra le pratiche reali e le numerose evidenze disponibili appare incolmabile; le pratiche impermeabili o, nella migliore delle ipotesi, molto resistenti a quelle evidenze che ne esigono una radicale e immediata messa in discussione. Inoltre per la società civile, peers e famigliari, all’impossibilità di partecipare alla produzione delle evidenze si somma l’esclusione dalla stesura delle Linee Guida, dalla pianificazione/controllo/monitoraggio dei servizi e da un effettivo coinvolgimento nelle decisioni relative ai percorsi clinici, tutti ostacoli ai cambiamenti auspicati.
Solo ri-contestualizzando Basaglia, non in un tempo nuovo, ma in uno spazio più ampio di quello tecnico dei servizi di salute mentale dentro cui è stato “internato”, alienato da sé, è possibile rinnovarne il potenziale trasformativo, uscendo dalla stretta logica tecnicistica che appiattisce l’esperienza della salute mentale relegandola al neutrale e rassicurante campo sanitario o a questo delegandolo. Basaglia è chiaro: si tratta di una partita che va giocata all’esterno dell’istituzione psichiatrica, pena un affievolimento delle forze necessarie al cambiamento. È questo il terreno su cui occorre riportare il discorso basagliano, ripoliticizzandone l’opera ridotta spesso a mero dato tecnico, sanitario, per addetti ai lavori, essendo questo il terreno su cui si è imposto come pratica collettiva volta al contrasto di processi e strutture sociali ingiusti ed evitabili. Si tratta di una pratica politica prima che sanitaria. L’obiettivo è la ridefinizione dei rapporti tra cittadini e tra questi e le istituzioni.
Il significato profondamente politico della chiusura dei manicomi, ricorda Basaglia [12], emerge nel confronto tra il processo di deistituzionalizzazione italiana, volto alla promozione dei diritti di cittadinanza, e quella americana, sospinto dalle politiche reaganiane dei tagli alla spesa pubblica che amplificano le disuguaglianze sociali, di salute e la nocività dei suoi effetti. Il senso della chiusura dei manicomi risiede nella liberazione, nell’emancipazione dei “folli poveri” dalla miseria dell’organizzazione sociale in ferma opposizione con la riproduzione di politiche sociali, sanitarie ed economiche che escludono chi occupa posizioni svantaggiate. I processi strutturali responsabili della stratificazione disuguale nella popolazione di risorse materiali, di status e di aiuto[22], già evidenziate da Hollinghsead e Redlich[18] e che consentono agli individui di esercitare trasversalmente (nei diversi contesti) e longitudinalmente (nel corso di vita) maggior o minor controllo sulla propria vita godendo, a seconda della posizione sociale, di disuguali condizioni di salute, anche mentale[16, 17], sono i medesimi che determinano le logiche che governano produzione di evidenze[19], forma, qualità, efficacia, accessibilità dei servizi di salute mentale, estensione del welfare come strumento di tutela dei diritti e la qualità del tessuto sociale.
Quarant’anni più tardi, è noto quanto il benessere medio di una nazione non sia legato alla ricchezza della popolazione ma all’ampiezza del divario nella distribuzione di tale ricchezza[20]; è nota la distribuzione lungo il gradiente sociale per la maggior parte dei disturbi mentali comuni[17]; è nota l’importanza, a monte, di politiche realmente preventive intersettoriali che influenzino i determinanti sociali della salute[19]; conosciamo l’importanza del welfare nel ridurre gli effetti, a valle, delle disuguaglianze sopratutto per chi occupa posizioni di svantaggio[21].
Occorre ricostruire spazi di partecipazione condivisa tra tecnici, cittadini, decisori politici e tutti i portatori di interessi in cui riconoscere i processi che minano la salute mentale di ciascuno e di tutti e riavviare i processi collettivi necessari a contrastarli. Un approccio che implica coraggio, una “crisi dell’identità dello psichiatra”[14] e, pur nel mutato clima sociale, il coinvolgimento delle forze politiche e tutta la società civile che, alla prova dei fatti, quarant’anni fa si è dimostrata la cura più efficace per risolvere una parte dei problemi dei poveri folli, dell’istituzione psichiatrica e dell’organizzazione sociale.
Matteo Bessone, Psicologo, “SportelloTi Ascolto”
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