Negli ultimi anni si è spesso sentito parlare di recovery, sia all’interno della comunità scientifica sia tra i non addetti ai lavori; questo termine è diventato ormai di uso comune ma cosa si intende per recovery? La definizione più accreditata di recovery afferma che essa è “un processo profondo e unico di cambiamento delle attitudini, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e ruoli. Sentirsi realizzati vivendo una vita soddisfacente, piena di speranza nonostante le limitazioni causate dalla malattia. Recovery comporta lo sviluppo di nuovi significati e apprendimenti nella vita di una persona che cresce e si sviluppa oltre gli effetti catastrofici della condizione patologica” (Anthony, 1993).

Il termine, in realtà, non possiede un esatto equivalente nella lingua italiana e non è semplicemente traducibile con la parola “guarigione”, ma piuttosto con forme verbali riflessive quali ad esempio il verbo “riappropriarsi” o “riaversi”. A differenza del verbo guarire, “recovery” implica un’idea di processo, di percorso evolutivo e di “viaggio” personale che riguarda l’intera vita della persona. Non si tratta di un ritorno ad una condizione precedente l’insorgere del disturbo, intesa come remissione dei sintomi psicopatologici e/o di funzionamento sociale, ma di un processo di cambiamento personale e di riappropriazione del controllo sulla propria vita, di rafforzamento di una attitudine positiva rispetto ad una propria progettualità attraverso l’accesso alle opportunità sociali, allo sviluppo di nuove abilità e competenze, all’avere potere contrattuale e all’essere responsabili nella cura di se stessi.

Secondo l’American Psychiatric Association, il concetto di recovery enfatizza la capacità della persona di avere speranza e di condurre una vita significativa. Spesso i pazienti sentono di non avere alcun potere di auto-determinazione e tale mancanza interferisce con l’acquisizione ed il mantenimento di un buono stato di equilibrio e salute mentale. I migliori risultati si ottengono invece quando il soggetto sente che le decisioni vengono prese con rispetto del suo bagaglio culturale, spirituale e di credenze. Questo approccio si focalizza sul benessere e sulla resilienza e incentiva i soggetti a partecipare attivamente al proprio percorso di cura.

Nel Piano di Azione Globale per la Salute Mentale 2013-2020 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) si legge: “è importante offrire trattamenti orientati alla recovery in cui sia prevista la partecipazione attiva di tutti gli stakeholder coinvolti, al fine di offrire alle persone la possibilità di vivere una vita piena a produttiva all’interno della comunità.” E così anche nel Piano di Azioni Nazionale per la Salute Mentale : ”viene raccomandato un modello di approccio che dovrebbe garantire: servizi flessibili, orientati sui bisogni e sulle persone, recovery-oriented”.

Oggi il movimento per la recovery sembra dunque rivestire un ruolo importante nell’ambito delle politiche sociali e sanitarie e sembra avere una tale risonanza da riportarci, alla mente, un altro movimento che ha avuto, storicamente, una simile portata: il movimento anti-manicomiale e anti-istituzionale promosso da Basaglia in Italia.  Allora sorge spontanea una domanda: pur essendo i momenti storici, gli attori, le modalità e le filosofie di partenza diversi tra loro, esistono dei punti di contatto, per dirla brevemente, tra recovery e Basaglia? O ancor meglio, il movimento anti-istituzionale può essere considerato ciò che ha gettato le basi e le fondamenta, l’apripista del movimento per la recovery?

Il movimento per la recovery ha avuto il suo boom negli anni Ottanta e Novanta, grazie a una serie di scritti e resoconti di utenti che iniziarono a essere pubblicati e circolare all’interno della comunità scientifica e non. In questi scritti le persone con una storia di malattia mentale descrivevano la propria esperienza in termini di perdita: di benessere, di identità, di potere, di diritti, di soggettività, di scelta… Non è la malattia in sé a causare queste perdite, bensì le conseguenze dell’aver assunto il ruolo di malato. Questa considerazione attirò l’attenzione del mondo accademico e professionale, perché gli utenti sembravano mettere in luce gli effetti iatrogeni degli ambienti di cura, la mancanza di opportunità di autodeterminazione, le speranze infrante e i risvolti negativi che tutto ciò ha sul senso di sé.

Il movimento per la recovery contrappone quindi, ai paradigmi classici della psichiatria e al riduzionismo medico-biologico, il ruolo attivo della persona e la sua esistenza concreta. L’enfasi sulle determinanti sia soggettive che sociali della malattia implica la necessità di considerare il malato come soggetto individuale e collettivo, con una molteplicità di bisogni che i servizi non possono trascurare. Anche Basaglia aveva speso gran parte del proprio lavoro a chiamare in causa e criticare i modelli interpretativi della psichiatria e il concetto stesso di malattia, perché partire da queste premesse è la pre-condizione per strutturare e organizzare servizi che favoriscano i processi di guarigione clinica e sociale.

Da oltre 30 anni ormai osserviamo lo stallo della ricerca in psichiatria e la crisi dei modelli scientifici positivistici mentre la recovery ha dimostrato quanto ampi e vari possono essere i modi con cui le persone affrontano i problemi di salute mentale, quanto diversificati siano i supporti possibili. Il tentativo è quello di ricondurre al sociale e all’umano i temi della malattia e della salute mentale, restituire al malato la sua soggettività che significa, innanzitutto, restituirgli la responsabilità della propria salute.

Nelle Conferenze brasiliane Basaglia scriveva: “Certamente una delle terapie più importanti per combattere la follia è la libertà. Quando un uomo è libero, quando ha il possesso di se stesso e della propria vita, gli è più facile combattere la follia”(Basaglia, 2000). Libertà significa emancipazione, libertà significa riacquisizione del potere che ciascuna persona ha, dal momento in cui viene al mondo. Dal momento della sua venuta al mondo, ciascun uomo è un uomo totale, è un essere sociale, relazionale, economico e politico, ed è con questa essenza, nella sua integrità, che i servizi devono rapportarsi. Rimettere in campo le questioni del denaro, della casa, del lavoro, delle relazioni, del potere significa ritornare ai bisogni primari degli uomini, senza i quali non è possibile parlare di salute né di malattia. Il processo di recovery tenta di trovare risposte e soluzioni a bisogni che non sono mai solo individuali ma sono sempre mediati dall’organizzazione sociale ed espressi nei modi che quella organizzazione sociale ha sancito.

La recovery è un processo che passa dal riposizionare il rapporto della persona non solo con la malattia, ma soprattutto, in senso più ampio, con la vita, perché salute e malattia non sono un fatto individuale ma interpersonale e sociale, tanto che Basaglia definiva la guarigione come “un fatto economico-sociale più che tecnico-scientifico” (Basaglia, 1969). Se il focus diventa il rapporto con la vita, allora anche la malattia può ritrovare il suo posto come parte della vita, come esperienza umana a cui tutti siamo soggetti. La vita è quel grande palcoscenico sul quale tutti ci muoviamo e in questo movimento il nostro rapporto con la salute e la malattia deve poter rimanere dialettico, deve poter farci permanere nella posizione di soggetti attivi e non di oggetti passivi. Così scriveva Basaglia: “Se l’assistito si riappropria della sua vita riconquista la possibilità di essere curato come un diritto che gli spetta e non come una concessione” (Basaglia, 1975).

Il movimento anti-isituzionale ha posto con forza i concetti di partecipazione ed emancipazione: partecipare al proprio percorso di cura quando si è in condizioni di malattia e prendere parte ai processi decisionali emancipa il soggetto dalla condizione di non libertà che è propria del ruolo di malato (e non della malattia!) e porta al recupero di un senso di appartenenza a una comunità e quindi alla costruzione e al rafforzamento di una identità sociale.

Questo processo non può avvenire senza cambiamenti sociali e politici e in particolare non può avvenire senza un cambiamento e un riposizionamento dei servizi di salute mentale che hanno il ruolo di promuovere il senso di responsabilità e autodeterminazione delle persone.

“Qualsiasi tipo di organizzazione che non tenga conto del malato nel suo libero, personale porsi nel mondo, fallirà il suo compito, perché agirà su di lui come una forza negativa anche se apparentemente tesa alla sua guarigione” (Basaglia, 1965). Quando parla di forza negativa, Basaglia si riferisce al permanere nel rapporto dominatore/dominato, controllore/controllato. La fuoriuscita da questa logica è l’obiettivo del processo di recovery: se il termine “recovery” significa riappropriazione, ciò di cui ci possiamo/dobbiamo riappropriare sono i rapporti, in primo luogo il rapporto tra chi cura e chi è curato, tra chi eroga e chi utilizza i servizi, ma anche i rapporti, in generale, tra cittadini che vivono nella stessa comunità e di quella comunità sono responsabili.

Il punto in comune di più grande interesse tra recovery e movimento anti-manicomiale forse è questo: promuovere la deistituzionalizzazione della relazione terapeutica come forma di relazione all’interno del quale esistono delle posizioni e dei poteri che possono essere utilizzati a favore o contro il processo di guarigione. L’istituzione, come ci ha insegnato bene Basaglia, non è nelle mura dei manicomi, luoghi oggi chiusi e quasi dimenticati, ma è nei nostri camici, nei nostri studi, nei nostri libri e manuali, è nei nostri ruoli, nelle nostre menti. Deistituzionalizzare la relazione terapeutica non significa eliminare o cancellare o ignorare l’esistenza del potere, bensì riconoscerlo in tutte le sue sfumature: significa, per l’operatore della salute mentale, fare un passo indietro e riconoscere il potere di trasformazione dell’altro. Fare i conti, nel campo delle forze in gioco, con il sapere e il potere dell’altro e anche porre dei limiti alle proprie presunzioni di potere e sapere.

Non è, in fondo, così importante per noi stabilire se le radici del movimento per la recovery siano da rintracciare nel lavoro di Basaglia in Italia, quel che conta è che il processo di recovery, che così profondamente ci pare legato al movimento di deistituzionalizzazione nato in Italia, non è solo un obiettivo dei piani globali e nazionali di salute mentale, né tantomeno può configurarsi come una moda degli ultimi anni ma è, a nostro parere, una sfida che riguarda tutti.

Nella pratica clinica, sin dalla sua nascita, lo Sportello TiAscolto tenta di promuovere questo riposizionamento all’interno della relazione terapeutica: la flessibilità, la contrattazione e la negoziazione della tariffa, che contraddistinguono il nostro servizio, non sono meramente un fatto economico o una modalità di proporre terapie low-cost; piuttosto hanno a che fare con il riconoscere che qualunque soggetto ha uno spazio esistenziale all’interno della relazione con il terapeuta e che quello spazio è uno spazio di sapere e di potere (oltre che di bisogni concreti e reali dai quali l’ambiente di cura non può prescindere) che spesso però è declinato come uno spazio di disuguali possibilità. Così come accade nell’istituzione, anche nella relazione terapeutica possiamo (e scegliamo) di portare avanti una politica di disuguaglianza oppure una di equità. La scelta dello Sportello in questo è forte e determinata: la relazione per noi può dirsi collaborativa quando da parte di entrambi, paziente e terapeuta, c’è un reciproco riconoscimento di questo spazio e quindi del proprio diritto di potere e di sapere. Come asseriva Basaglia: “La terapia ha senso quando c’è reciprocità tra il malato e il medico” (Basaglia, 2000).

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Anthony, W. A. (1993). Recovery from mental illness: The guiding vision of the mental health service system in the 1990s. Psychosocial Rehabilitation Journal, 16(4), 11-23.

Basaglia, F. (2000). Conferenze brasiliane. Raffaello Cortina, Milano

Basaglia, F. (1975). Il concetto di salute e malattia. In collaborazione con Giannichedda M.G. e Ongaro Basaglia F. in Scritti II, Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica. Einaudi, Torino, 1982.

Basaglia, F. (1969). Introduzione a Morire di classe. In Scritti II, Dall’apertura del manicomio alla nuova legge sull’assistenza psichiatrica. Einaudi, Torino, 1982.

Basaglia, F. (1965). Potere e istituzionalizzazione. In Scritti I, Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia. Einaudi, Torino, 1982.

A cura di Maone, A. e D’Avanzo, B. (2015). Recovery. Nuovi paradigmi per la salute mentale. Raffaello Cortina, Milano

SITOGRAFIA

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1905_allegato.pdf

http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_2448_allegato.pdf

 

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