La marcha de la humanidad en la Tierra y hacia el Cosmos” by David A. Siqueiros
Da giorni imperversa ovunque, sui social, sulle lenzuola appese ai balconi, sui cartelloni colorati disegnati dai bambini, nelle storie Instagram, risuona negli hashtag e nei video. Ovunque, qualsiasi foto, riflessione, articolo, colazione, pranzo o cena, sessione di yoga o aperitivo al balcone è accompagnato da questa frase: andrà tutto bene.
Lo slogan sembra essere ampiamente condiviso, in maniera più o meno consapevole, eppure a qualcuno queste parole iniziano a produrre un certo fastidio. Ci siamo interrogati su questo vissuto, provando a rintracciarne origini e motivazioni. Forse qualunque slogan ripetuto centinaia e centinaia di volte e in una varietà smisurata di contesti produce, a lungo andare, noia. Ma questo non rende ragione dei vissuti di rabbia e angoscia che spesso si accompagnano a questo fastidio. Benché la noia inizi a fare la sua parte, deve esistere una ragione più intima e profonda per questa antipatia acquisita.
Cosa ci irrita profondamente di questa frase così breve, ottimista, così apparentemente innocente? Il verbo. Esatto. Questo verbo stuzzica le nostre viscere per diversi aspetti.
Innanzitutto per il tempo utilizzato, il futuro. Il futuro è quel tempo che indica un’azione che si svolgerà in un tempo diverso rispetto a quello dell’enunciazione e che, nondimeno, può esprimere una supposizione, un dubbio, un’ipotesi. Come sottolinea anche la Treccani è un verbo che a volte viene utilizzato per esprimere un garbato ordine, e quindi in sostituzione dell’imperativo. In questo senso “andrà tutto bene” sta diventando il mantra di un rito esorcistico, la difesa contro la paura che questo tempo futuro, con le sue incertezze, porta inevitabilmente con sé. Certamente, il futuro è la dimensione temporale a cui ci rivolgiamo in questo momento, in cui desideriamo proiettarci e proiettare le speranze, i progetti e desideri. Forse è il tempo in cui vorremmo teletrasportarci, per prendere le distanze dalla sofferenza di oggi. Ma questo desiderio di distacco e di rigetto del presente che questa frase esprime stride con il compito umano di essere presenti, qui ed ora, in questo nostro tempo. E se davvero fossimo capaci di spedirci dritti dritti nel futuro senza assumerci la responsabilità di questo futuro e quindi senza aver vissuto responsabilmente questo presente, allora sarebbe un futuro peggiore della sciagura che stiamo vivendo. Forse domani andrà tutto bene ma oggi è possibile che stiamo male e per arrivare a quella bramata dimensione futura è necessario accogliere, attraversare, significare e dare un senso a questo presente tanto indesiderato. E’ necessario stare, con tutti noi stessi, più di quanto lo sia il fantasticare di catapultarci in un’altra dimensione temporale.
Non è solo il tempo a disturbarci, anche la persona. O meglio la non persona. Questo utilizzo della forma impersonale ci fa sgranare gli occhi e inorridire davanti al timore che “Allora non abbiamo capito proprio niente”. Perché è comodo pensare che qualcosa/qualcuno interverrà per sistemare tutto, per debellare il covid19, per rimettere a posto le nostre vite, la nostra sanità, la nostra economia, la nostra società… Interverrà un deus ex machina a sbrogliare la matassa e portare tutto alla risoluzione, come nelle migliori tragedie greche. Andrà tutto bene…insomma qualcuno ci penserà, giusto? Ci penserà Dio, ci penserà lo Stato, ci penseranno gli Eroi/medici, ci penserà la Natura, ci penserà il Tempo, ci penserà la Storia, ci penserà persino la Geografia perché noi viviamo nella porzione fortunata di questo pianeta e qui, nell’Occidente (torre d’avorio) le catastrofi non possono/devono succedere… E invece forse COVID-19 è una catastrofe globalizzata in un mondo globalizzato. Il mondo da cui vorremmo espellere questo parassita acellulare è lo stesso mondo in cui nel 2004 lo tsunami in Indonesia ha prodotto 227mila morti e lo stesso mondo in cui la guerra civile in Siria conta, ad oggi, 560mila morti; lo stesso mondo delle drammatiche morti nel Mediterraneo che in tre anni sono state 15mila. E potremmo andare molto avanti (o cronologicamente molto indietro). E che mondo è questo? E’ un mondo fragile ma reale, reale nella sua interezza, il mondo in cui le cose non sono mai andate totalmente bene ma ne abbiamo sofferto meno solo perché non è capitato a noi. Il mondo non è un posto giusto ma forse, se lo abbiamo dimenticato, è perché semplicemente, e senza colpa, siamo privilegiati. Questa impersonalità nel verbo ci allontana, ancora una volta, dal senso profondo che possiamo ricavare da tutta questa esperienza. “Andrà tutto bene” rischia di essere la reificazione della negazione, è l’anestesia che scegliamo di iniettarci per andare avanti, è l’attesa di un lieto fine che rinnega la tragedia che si è già consumata. C’è un finale che stiamo attendendo? E quale soggetto, grammaticale e incarnato, si assume la responsabilità di questo finale?
Abbiamo il coraggio di trasformare questo verbi impersonali che “sono verbi usati senza un riferimento specifico a una persona che ne sia il soggetto” (cit.Treccani) in un verbo alla prima persona plurale? In un verbo di cui ci riappropriamo e attraverso cui ci costituiamo come soggetti specifici di questa azione? Un verbo che richiami forte alle nostre coscienze il nostro impegno sociale, politico, economico, sanitario e, soprattutto, etico nel fare le cose meglio di come abbiamo fatto finora?
Forse possiamo liberarci della formula “andrà tutto bene” e della prospettiva di attesa e delega che questa formula trascina con sé per appropriarci di un’altra formula, o di altre formule che vadano nella direzione dell’assunzione di responsabilità e della creazione di possibilità concrete di cambiamento.
Noi non sappiamo se andrà tutto bene. Sappiamo che POSSIAMO fare molto (o anche molto poco) per questo finale.