Quella che stiamo vivendo è probabilmente la più grande crisi sanitaria e sociale che si è abbattuta sull’Occidente dal secondo dopoguerra. Le drammatiche cifre sulle vittime e i contagi, in aumento costante; le limitazioni al movimento che ostacolano i passaggi ritualistici così funzionali all’elaborazione del lutto della perdita di una persona cara; il drastico e repentino cambio di abitudini di vita; i vincoli imposti alle libertà personali, per noi così preziose; l’impatto disastroso sul lavoro e le economie delle persone; il fantasma dell’incertezza per il tempo che ci vorrà a uscire dall’emergenza e per quel che ci riserverà il futuro. Tutto questo contribuisce a creare una moltitudine di stressors che costituiscono dei veri e propri fattori di rischio per la salute complessiva della popolazione: salute fisica e mentale, salute economica e sociale, potremmo dire salute esistenziale.
Secondo uno studio di Harvard sull’Italia, vi è un rischio concreto che dall’emergenza sanitaria si passi ad una emergenza psicologica[1]. Effettivamente, alcuni dati sembrano confermare che le conseguenze sociali dell’epidemia di Covid-19, e le misure ad essa correlate, stiano già riscuotendo il loro tributo in termini di malessere psicologico. Basti pensare all’impennata di TSO richiesti a Torino, che da una media già molto elevata di due interventi al giorno, legati ad un’indebolimento della rete dei servizi territoriali, è passata a picchi di nove TSO giornalieri nel mese di marzo[2]. Parimenti, si parla di aumenti delle violenze domestiche e del rischio di incrementi nei tentativi di suicidio[3].
L’emergenza psicologica, insomma, sembrerebbe già in atto. Ciò non stupisce se consideriamo il disagio psicologico non come disfunzione propria dell’individuo, ma come risultato di una molteplicità di fattori determinati dall’incontro tra gli individui, le condizioni ambientali, le risorse sociali, i vincoli socioeconomici e politici, le relazioni di potere e tutte quelle risorse che contribuiscono a creare salute e benessere – tutti elementi che al momento sono fortemente in crisi.
Una certa sofferenza emotiva condivisa a livello di popolazione sembra implicitamente riconosciuta da tutti gli attori sociali che prendono parola per esprimersi in merito alla situazione che stiamo vivendo; fa parte inoltre dell’esperienza quotidiana individuale di tutti coloro che si trovano a vario titolo ad avere a che fare con le conseguenze piccole e grandi dell’epidemia.
Ciononostante, si ha l’impressione che, a livello sociale, il contributo richiesto al settore della psicologia e della psicoterapia sia marginale.
La domanda sorge spontanea: perché? Come mai, a fronte di una grave e diffusa emergenza legata alla salute mentale della popolazione, la psicologia non è stata particolarmente interpellata dalla società?
La comunità/corporazione degli psicologi, come sempre, è stata molto solerte nel proporre iniziative di vario genere: alcune rivolte alla popolazione, come i numeri di ascolto gratuito, altre alla comunità professionale per rilanciarsi nel mercato del post-coronavirus, come i corsi EMDR per il superamento del trauma (trauma che, tra l’altro, sembra l’unico costrutto psicologico che mette d’accordo tutti e viene nominato nel discorso mediatico e istituzionale, forse perché maggiormente inquadrabile in un’ottica medica). Alcune di queste iniziative sono sicuramente meritevoli, nascono dalla volontà di dare un contributo utile nel momento di emergenza e possono incontrare un eventuale bisogno della popolazione; altre appaiono francamente strumentali e pretestuose; altre ancora sembrano alquanto autoriferite, più rispondenti ad un bisogno della comunità di psicologi di sentirsi legittimata e non sentirsi esclusa dal grande agone sanitario che a un’effettiva riflessione sui bisogni di salute e sociali della comunità dei cittadini. In tutti i casi, buona parte della categoria si è prodigata nell’offerta di servizi all’individuo, come d’abitudine, mentre al meritevole impegno politico del Consiglio Nazionale appena insediato, seppur a tratti discutibile nelle modalità, non sembra esser corrisposto un analogo interesse da parte dei colleghi rappresentati verso temi come la gestione istituzionale dell’emergenza e le risposte sistemiche ai bisogni di salute psicologica della popolazione.
Generalmente, si è risposto con iniziative spontanee[4] verso quello che noi psicologi riteniamo che sia un bisogno, non di risposte a richieste espresse dalla popolazione o dalle istituzioni in questo senso.
Da un lato, è probabile che i bisogni emergenziali che i cittadini sentono come più impellenti siano altri: salute fisica, sicurezza economica. È altresì evidente che, a un livello istituzionale, la salute mentale è posta in secondo piano rispetto ad altre priorità: lo testimonia la chiusura di molti CSM e CPS sul territorio nazionale.
D’altra parte, però, come non rilevare in questa mancata richiesta il risultato di uno scollamento che il sapere e le pratiche psicologiche hanno operato rispetto alla società e alle reali condizioni di vita e le esigenze della popolazione? Detto altrimenti: se in un momento di forte crisi psicologica nessuno o quasi si rivolge alla psicologia, può la psicologia dire di essere in grado di farsi carico dei bisogni di una popolazione che non la percepisce come punto di riferimento? O è probabile che non possieda gli strumenti per capire e far fronte alle problematiche reali delle persone?
Come psicologi, siamo abili nel sostenere che il problema siano gli altri, i quali non capiscono di cosa hanno realmente bisogno, piuttosto che mettere in discussione i nostri presupposti teorici, etici e le nostre pratiche.
Si paga il prezzo di due ordini di problematiche irrisolte, perché scarsamente riconosciute e affrontate:
- La psicologia non si è occupata abbastanza della società, non si è fatta portatrice di istanze e problematiche collettive, appiattendosi sulla sola dimensione individuale e tralasciando in maniera colpevole ciò che pertiene alla sfera economica, politica, di classe sociale, di genere e di appartenenza etnico-culturale: per questo, non è considerata una disciplina capace di rispondere a problemi collettivi (e forse attualmente non lo è). Inoltre, scollando la mente e le questioni psicologiche di cui si occupa, dai processi sociali, culturali, economici collettivi che non riesce ad indagare, non sarà pronta e tempestiva ad affrontare e dare risposta ai problemi che insorgeranno per le ricadute economiche, sociali e politiche che seguiranno alla crisi coronavirus: questo avviene poiché si considera tali problemi irrilevanti per il disagio psicologico, che si suppone essere un dato individuale o al massimo relazionale e familiare.
- Nonostante la difesa a spada tratta della professione che continuamente sbandiera, la psicologia ha subito passivamente la delegittimazione operata dalla psichiatria del paradigma biomedico, rispondendo da un lato con un corporativismo infantile che mira sopratutto a difendere “dignità”, “prestigio” e “immagine” della professione, dall’altro adottando la stessa retorica svalutante indirizzandola verso attori collocati più in basso nella “catena alimentare professionale” della divisione sociale del lavoro nel libero mercato, come i counselor (con un accanimento che fa riecheggiare un pallido tentativo di riabilitazione di sé agli occhi di un papà severo, magari un primario dallo sguardo arcigno: “guardi dottore, noi siamo bravi, sono loro che sono impreparati”). Contemporaneamente, per trovare una legittimazione nel mondo delle “scienze dure” a cui tanto aspira, il sapere psicologico ha tentato di incastrarsi nel paradigma biomedico, ritrovandosi a capofitto in tutte le contraddizioni di ordine epistemologico e pratico oltre che nelle difficoltà discusse nel punto 1.
Se veramente ci sarà, come è lecito immaginare, un aumento della sofferenza psicologica ed esistenziale a seguito dell’epidemia di Covid-19, a chi verranno chieste risposte in merito? Siamo portati a pensare che esse verranno chieste, dalla popolazione e dalle istituzioni, soprattutto alla psichiatria, con tutti i rischi conseguenti: sappiamo come una certa psichiatria, così come una certa psicologia, rischi di essere orientata alla cura del sintomo e non alle cause del malessere delle persone, che mai come in questa situazione saranno legate a determinanti sociali della salute e della sofferenza. Sarà utile diagnosticare un numero enorme di disturbi post-traumatici da stress, prescrivendo i relativi farmaci ed eventuali terapie psicologiche individuali? Darà un effettivo beneficio a chi è rimasto senza lavoro, chi non ha potuto fare un funerale al padre, chi ha scoperto di avere un compagno violento, chi ha perso fiducia nelle istituzioni, chi ha paura di recarsi in ospedale?
Riusciremo, come categoria, a fare un passo indietro per farne due avanti e, dopo aver rinunciato a prendere in carico l’ennesimo paziente e aver liberato il tempo necessario, affermare, insieme e partendo dalle nostre competenze, che questi cittadini non hanno necessariamente bisogno di uno psicologo per stare bene, ma di un lavoro, di una comunità sana, di non essere discriminati, di un ambiente salubre, di istituzioni sane? Riusciremo, in un’ottica più ampia, a lavorare per la salute mentale della popolazione a partire da, ma senza relegarla a, la professione privata che spoglia la sofferenza del suo valore sociale, pubblico, politico? Una grave conseguenza della privatizzazione della professione psicologica sembra infatti essere non solo relativa agli effetti economici che produce all’interno della collettività, ma anche alla concezione stessa della sofferenza, che si trova privata[5] della sua connotazione sociale e della possibilità di azioni e riflessioni che superino questa privatezza e questo isolamento. Una privatizzazione, dunque, che assume anche il doppio significato di “privazione”.
La situazione attuale può costituire un’occasione per ripensare radicalmente i rapporti della psicologia con la società, da un punto di vista epistemologico, politico e pratico. Di nuovo: stiamo vivendo la più grave crisi sanitaria dei nostri tempi, che investe tutti gli aspetti della vita delle persone, dal lavoro ai progetti futuri, dallo studio alla famiglia, dalla salute fisica a quella mentale.
La psicologia non è stata interpellata, e si è poco interpellata.
Quali altre prove servono per capire che dobbiamo cambiare rotta?
La nostra sembra una categoria poco coraggiosa, in eterna posizione difensiva. Non ci sentiamo autorizzati a partire da una riflessione sulla nostra funzione, ad assumere una posizione critica, autenticamente nostra. Sembra che gli psicologi siano sicuri delle proprie idee solo in stanza di terapia, forse perché si sentono protetti nell’unico luogo in cui sperimentano il potere. Per il resto, attendiamo ordini, o chiediamo timidamente maggiore considerazione, nonostante abbiamo tutti gli elementi per poter scegliere da che parte stare e contribuire in maniera pregnante a ciò che si muove a livello politico e sociale.
La psicologia, insomma, è troppo attenta a se stessa, troppo poco al mondo che la circonda, che contribuisce a creare, da cui è plasmata e di cui è vettore. Rifugge da qualsiasi dimensione conflittuale che non sia quello corporativo e rivolto verso il basso.
Occorre tuttavia ricordare che lo stato sociale e la stessa idea che le persone abbiano il diritto di accedere alle cure psicologiche sono il frutto non di una timida richiesta tramite petizioni online, girate in mailing list di addetti ai lavori, ma di infuocate battaglie sociali che hanno sollevato problematiche collettive e proposto soluzioni ad ampio raggio.
È possibile che la psicologia partecipi e contribuisca alle scelte economiche politiche e sociali di una nazione?
Non mancano esempi virtuosi sul piano internazionale, specie in contesti che appaiono per vari motivi particolarmente favorevoli ad accogliere e sviluppare idee innovative di welfare. Un caso di questo genere è rappresentato dalla Finlandia, dove l’approccio dialogico sviluppato da Seikkula e Arnkil è stato non solo integrato con successo nei protocolli di intervento precoce sul disagio psichico grave con l’effetto di ridurre le ospedalizzazioni psichiatriche e il ricorso alla farmacologia (attraverso il coinvolgimento attivo del contesto familiare e sociale dell’individuo che manifesta esordi psicotici) ma soprattutto è stato inserito a pieno titolo nelle politiche di welfare locali. La psicologia in quel caso ha rivendicato la propria esistenza in tutte le municipalità finlandesi, a livello scolastico, amministrativo, dei servizi sociali nonché economico. Ciò deriva anche da una precisa scelta di posizionamento rispetto, ad esempio, alle criticità e gli effetti iatrogeni di un certo tipo di ospedalizzazione psichiatrica.
Evidentemente esistono, anche se talvolta isolati e marginali, colleghi dotati di spirito critico e caparbietà, desiderosi di dare il proprio contributo per la salute collettiva anche attraverso la propria professionalità e oltre questa.
La mancanza di voci collettive che si staglino al di sopra di quelle individuali, principale sintomo dell’irrilevanza sociale e politica della categoria, costituisce da una parte il risultato dell’incapacità di andare oltre alla dimensione individual-individualistica di psicologi e psicologhe, dall’altra il triste presupposto per risposte inevitabilmente isolate, frammentate, individualizzate, collettivamente irrilevanti.
Abbiamo bisogno di andare oltre alla facile tentazione di azioni solitarie, immediate e rassicuranti. Non è facile. Ma solo insieme possiamo fare meglio, per tutte e tutti.
[1]https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/03/25/news/coronavirus_il_primo_studio_di_harvard_sull_italia_da_emergenza_sanitaria_si_passera_ad_emergenza_psicologica_-252306258/
[2]https://www.esquire.com/it/lifestyle/tecnologia/a31895857/coronavirus-psichiatria/
https://mole24.it/2020/03/21/torino-la-quarantena-manda-in-tilt-la-gente-aumentano-i-casi-di-tso/
[3]https://www.peopleforplanet.it/quarantena-violenta-serve-una-parola-in-codice-con-cui-le-donne-denuncino-in-farmacia/
[4] Incuriosisce la scelta di adottare, senza l’esplicitazione della sottostante riflessione di fondo, un carattere di gratuità per la maggior parte di queste iniziative. La perplessità insorge poiché la categoria degli psicologi clinici e degli psicoterapeuti, in regime di “normalità”, oscilla da una forte svalutazione delle iniziative che abbassano le barriere economiche di accesso, che verosimilmente la allontanano dalla popolazione maggiormente bisognosa, ad una lamentevole autocommiserazione per la scarsa occupazione, attribuita frequentemente ai pregiudizi delle persone.
[5] All’interno di studi, per l’appunto, privati.