[Foto di Lachlan Cormie]
Nella professione psicologica e psicoterapeutica la parola è fondamentale, in ogni sua forma. Nel percorso di studi si apprende, sin dai primi anni, a riconoscere un buon testo o manuale, a selezionare un articolo scientifico adeguato e con buon impatto, a utilizzare parole per descrivere ciò che si è appreso/studiato; si apprende cioè a fare anche della parola scritta (e della scrittura)uno strumento a servizio del sapere psicologico. La scrittura professionale riguarda fenomeni, aspetti e situazioni dell’esistenza umana, studi condotti in specifici ambiti ma, soprattutto, la scrittura professionale riguarda le persone. Non individui astratti, immaginari, ma le persone reali, concrete che i professionisti incontrano nelle loro strade. La scrittura di un caso clinico o di una relazione aspetta al varco ogni psicologo/psicoterapeuta in formazione. Tra le competenze che dovrebbero essere apprese durante il percorso di studi, universitario prima e di specializzazione poi, esiste anche quella della scrittura: scrivere della/sulla vita delle persone.
COSA si scrive della vita di un altro essere umano? Tecnicamente qualcosa che, di volta in volta, prende un nome diverso a seconda della funzione d’uso, del contesto, del destinatario della comunicazione: la relazione per il giudice, il caso clinico per il didatta supervisore, il case report per i colleghi dell’equipe, l’articolo scientifico per la rivista di psicologia …
COME si scrive della vita di un altro essere umano? Scrivere è un compito (a volte un adempimento burocratico) che non riguarda solo la professione psicologica ma accomuna una serie di operatori dei servizi sia medici-sanitari sia sociali e assistenziali. E questo non è un caso: la scrittura accomuna molte professioni d’aiuto perché scrivere fa parte della relazione attraverso cui e in cui si attua il processo di aiuto.
Occorre pertanto prestare attenzione poiché attraverso ciò che si scrive delle persone che stiamo tentando di aiutare, la relazione con loro e il processo di aiuto (che con loro stiamo cercando di co-costruire) possono essere, nella migliore delle ipotesi, promossi e favoriti e, nella peggiore, rallentati e/o ostacolati, se non apertamente danneggiati.
Ne consegue che su questa “competenza” dovrebbe vertere una grande parte della formazione dei professionisti della salute (psicologica e non). Purtroppo lo scenario attuale non conferma questa aspettativa. Innanzitutto, è curioso che provando anche semplicemente a fare una ricerca su Google con le parole chiave scrittura-caso-pazienti vengano fuori, per primi, una serie di articoli che riguardano la scrittura e la comunicazione tra medico e paziente (quindi prettamente in ambito sanitario) e poi un’altra serie di articoli o suggerimenti di libri sull’argomento di stampo meramente “didattico”. Delle guide, in sostanza, che indicano quali sono i punti da inserire, qual è la struttura da rispettare, quali le informazioni da inserire e in quale preciso ordine, a quali manuali fare riferimento per le diagnosi e così via …
Si assume che, seguendo queste linee guida strutturali, qualunque persona e qualunque professionista sia in grado di scrivere della vita di un Altro, come se fosse solo una questione di stile, di forma, di struttura. Si parla invece poco, pochissimo, e ci si forma ancora meno, su quella che potremmo definire la “deontologia della scrittura”. Perché scrivere della vita delle persone, prima che un esercizio formale e stilistico, è un atto che pertiene all’etica. Scrivere dell’Altro significa schiudere la porta sull’esperienza dell’altro, costruire una narrazione soggettiva (e mai può essere oggettiva) che nel momento stesso in cui prende forma costruisce già qualcosa di diverso, che non parla dell’Altro ma parla di me in relazione all’Altro e di ciò che le mie lenti del mondo riescono a cogliere dell’Altro.
Certamente la scrittura ha la funzione di condividere, semplificare, trasmettere, riferire circa eventi, situazioni, circostanze, comportamenti. Ma in questo processo, che è squisitamente relazionale, spesso l’Altro finisce per soccombere dietro a parole troppo piene o troppo vuote, pregiudizi, stereotipi, tecnicismi. Troppe volte scrivere della vita delle persone si traduce nella scrittura di deficit, diagnosi, interpretazioni, o ancora nella compilazione di schede e tabelle attraverso cui si richiede ai professionisti di valutare ciò che si è osservato e proporre/suggerire soluzioni.
La scrittura tecnica da parte di chi è investito del potere di professionista sanitario, determina conseguenze concrete per le persone che sono oggetto di tale atto di scrittura: esse possono infatti subire un processo di essenzializzazione in cui sono ridotte ad una serie di etichette diagnostiche e tecniche. Tali etichette tendono ad oscurare l’esperienza della persona e promuovere processi di individualizzazione di problematiche sociali; inoltre, possono produrre effetti estremamente reali sul contesto intorno alle persone che ricevono, ad esempio, una certificazione diagnostica- si pensi a come cambia l’ambiente intorno a un bambino che riceve diagnosi di DSA – fino ad arrivare al “doppione psicologico-etico del delitto” prodotto dalle perizie psichiatriche in ambito penale (Foucault, 1999) che può portare a situazioni detentive interminabili.
Ma scrivere (così come qualsiasi altra forma di comunicazione) è un atto che già di per sé, nel momento stesso in cui lo si compie, sta modificando la relazione entro cui quella scrittura sta nascendo. Scrivere della vita delle persone significa, umilmente, scrivere della relazione che siamo riusciti a instaurare con quelle persone, della capacità o possibilità che abbiamo avuto di conoscere (per un breve o lungo periodo) un altro punto di vista, un altro posto nel mondo.
È dunque un atto che ha a che fare con il modo in cui ci avviciniamo all’Altro. Sarebbe utile, come professionisti, interrogarci principalmente sul peso delle parole che utilizziamo, più che sulla forma e la struttura che diamo loro. Oggi i percorsi universitari e di specializzazione non preparano alla scrittura professionale, almeno non in questo senso. Esistono corsi e laboratori sulla scrittura di casi clinici, report e relazioni ma non esiste un percorso di accompagnamento ad una scrittura etica, delicata, gentile, una scrittura che apre invece di chiudere, che solleva invece di subissare. Possiamo essere forieri di parole che liberano e invece troppo spesso ci appropriamo e facciamo strumenti del nostro mestiere parole grevi (e gravi) che imprigionano l’Altro e appesantiscono la nostra possibilità di trasformazione.
In questa direzione, se la scrittura è intesa e compiuta come azione etica e di responsabilità, allora essa può anche diventare atto politico. Attraverso la scrittura della vita delle altre persone e della relazione che abbiamo instaurato con loro abbiamo sempre due possibilità: ridurre la scrittura a una questione individuale e individualistica oppure percorrere, attraverso la narrazione della vita di un altro, un itinerario collettivo che collega quella specifica unica esistenza alla storia di una determinata epoca e di una determinata società. Scrivere la storia di un Altro, può significare (questo il potere che abbiamo, come professionisti) narrare la storia di ciascuno in un mondo diseguale, oppressivo, patriarcale, competitivo, violento, escludente. La scrittura ha il potere di penetrare nell’immaginario delle persone, di modificarlo e quindi di incidere sulla realtà. Quando scriviamo, come professionisti, abbiamo il potere di promuovere visioni più eque e democratiche, meno stigmatizzanti. Più la scrittura si estende, si dilata nella dimensione collettiva, più riusciamo a sfuggire alla tentazione (sempre molto accesa nella categoria) di ridurre tutto al personale, all’individuale, alla categoria, alla diagnosi, al disturbo. Possiamo scegliere di trasformare le storie personali in racconti corali, che diventano riflessi della società che noi stessi viviamo e condividiamo con le persone di cui scriviamo.
La scrittrice francese Annie Ernaux, che in questo 2022 è stata vincitrice del premio Nobel per la letteratura, ha scritto: “Mi considero molto poco come un essere singolo ma piuttosto come la somma di esperienze o di determinazioni sociali, storiche, sessuali, di linguaggi e continuamente in dialogo con il mondo, passato e presente”.
Questa potrebbe essere la direzione su cui puntare per colmare il vuoto formativo esistente: la formazione ad una scrittura etica e rispettosa come strumento di indagine sociale e trasformazione politica.
BIBLIOGRAFIA
Ricucci M. “Scrivere sulla vita delle persone. Una competenza professionale su cui investire in formazione” in Animazione Sociale Rivista degli Operatori Sociali n.2/2022 pp. 37-46
Ernaux A. “L’ecriture comme un coteau. Entretion avec Frederic Yves-Jeannet” Stock Editeur 2003
Foucault M. Gli Anormali. Corso al Collège de France (1974-1975). Universale Economica Feltrinelli, Milano 1999