di Gioele Cima, Piano B Edizioni, 2024.
Viviamo in un tempo in cui il lessico della fragilità è ovunque: nei discorsi politici, nelle pratiche educative, nelle narrazioni sociali.
L’epoca della vulnerabilità è un saggio agile, dallo stile incisivo e accessibile, che si propone di smascherare una delle narrazioni dominanti del nostro tempo: quella della fragilità come cifra universale dell’umano. L’autore tenta un’analisi provocatoria, muovendosi tra psicologia, cultura e politica, per mostrare come l’odierna centralità della vulnerabilità non sia solo un riflesso del nostro tempo e non sia affatto neutra, ma un preciso dispositivo di governo, con implicazioni profondamente politiche.
Il testo si apre con una diagnosi: nella nostra epoca, la vulnerabilità è diventata una categoria centrale, quasi un feticcio, e la psicologia – e soprattutto la psicoterapia – ha trasceso i propri confini disciplinari per diventare uno strumento ideologico. Un’accusa non nuova, ma che meriterebbe di essere declinata con maggiore precisione, non lontana dalle critiche sollevate dal concetto di “Psicoterapismo”. Laddove il libro tenta di smascherare i limiti del “paradigma terapeutico”, finisce spesso per ridurne le complessità e ridurre la complessità discorsivo-analitica. Ad esempio, la psicologia umanistico-esistenziale viene presentata esclusivamente come veicolo principale di una retorica dell’autorealizzazione individuale, solipsistica e derealizzante.
Cima guarda con sospetto alla crescente “culturalizzazione del trauma”, alla “società della cura di sé” e al linguaggio terapeutico come nuova grammatica dell’identità. Il messaggio è importante ma sicuramente non è attuale, per quanto lo diventarlo vista la pervasività dei dispositivi clinici. Sin dalle prime pagine, ci si muove in una cornice teorica vicina a quella di Frank Furedi (e della critica sociale anglosassone), tracciando il modo in cui la psicologia – più che come disciplina clinica – si è affermata come linguaggio culturale dominante. Tuttavia il riferimento a Furedi, da cui l’autore attinge a piene mani, nel libro viene solo sfiorato. Questo parziale silenziamento delle fonti può dare l’impressione di un discorso originale, soprattutto a un lettore non specialista, pur rielaborando posizioni ampiamente sviluppate in modo più approfondito da numerosissimi altri autori: basti pensare a Philipe Rieff, marito di Susan Sontag, nel testo del ’66 “The Triumph of the Therapeutic ”, o a Lasch, col suo classico “La cultura del narcisismo”, o al più recente “The Coddling of the American Mind”, del 2018 di Haidt, fino ad arrivare a “Bad Therapy” che, attraverso lo stesso semplicismo che caratterizza il testo di Cima, ha il merito di concentrarsi sull’impatto ambivalente della cultura terapeutica sulle istituzioni educative, dalla scuola alla famiglia, e infine sulla salute di bambini e bambine. Quanto il lavoro di Cima sia, di fatto, principalmente una divulgazione del lavoro di Furedi si evince dalla scelta del titolo. Questo sembra una crasi tra il titolo delle versione originale del lavoro di Furedi: “Therapy Culture: Cultivating Vulnerability in an Uncertain Age” e le diverse traduzioni del titolo nella versione italiana “Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana” e “Contro la psicologia. Come la deriva terapeutica rende vulnerabili individui e società”.
I capitoli affrontano i macro-temi, affrontati ampiamente da tutti questi autori, di una “psicologia pop”, normalizzante, che si esprime attraverso social media, formazione scolastica, politiche del benessere e il cui linguaggio, apparentemente inclusivo e depatologizzante, diventa funzionale al mantenimento dell’ordine esistente. In quest’ottica Cima sottolinea come la psicologia contribuisca a costruire un soggetto fragile, emotivamente instabile, cronicamente bisognoso di cura. Un soggetto funzionale al neoliberismo: non contesta, ma si adatta; non organizza resistenza, ma si analizza. In questo quadro, la cura smette di essere una pratica relazionale o politica e diventa un imperativo individuale, una tecnica di autogestione del disagio.
Tuttavia, proprio in questa semplificazione radicale sta il limite del libro. Nel tentativo di costruire una tesi forte, Cima finisce per appiattire la complessità della sofferenza psicologica, dei suoi contesti e culturale. La pluralità degli approcci psicologici viene ridotta a un unico schema di normalizzazione, e l’analisi rischia di tralasciare proprio quegli spazi di resistenza e trasformazione che pure posso esistere dentro e fuori i saperi (e i setting) terapeutici e le pratiche cliniche, basti pensare ad esempio alle Free o Social Clinics. Un ulteriore elemento su cui il lavoro di Cima evidenzia criticità sostanziali sono le modalità discorsive, che appaiono molto legate alla medesima dimensione individuale che l’autore, a partire dalla sua vicinanza a Lacan, adotta, in maniera simile a ciò che costituisce l’oggetto della sua critica.
Rimane comunque un libro utile, provocatorio e necessario oggigiorno, soprattutto per chi si occupa di cura, salute mentale, educazione. Perché, al di là delle semplificazioni, pone una domanda centrale: chi decide cosa significa stare bene? E a quale costo?

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