“Nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerare moralità o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente e gli individui della vostra specie, in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze e dagli animali e dalle piante. Se questa è l’opinione che avete del vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avrete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno.”

[Bateson 1970]

Un tempo vi era in noi una radicata consapevolezza dell’esistenza di qualcosa di inconoscibile; a quel tempo accettavamo l’idea dell’esistenza di un limite, sapevamo di non essere tutto e di non poter conoscere tutto; oggi sembra che di quel tempo si sia persa la traccia, e con esso, sembra essersi persa la traccia della stessa dimensione umana dell’umano. La scienza ci offre la descrizione di un cervello che può essere aumentato a dismisura, trattato come entità scissa dal corpo, separata, che possiamo estendere e prolungare a nostro piacimento in potenza e in durata. Per quanto affascinante tuttavia, questa prospettiva rischia di portarci nella direzione opposta, questa visione totalitaria della tecnica rischia di diminuire infatti l’uomo e renderlo ingranaggio della scienza stessa, e più il cervello aumenta, più l’uomo è diminuito. L’era della tecnica ha necessariamente coinvolto anche il campo della psicologia, tanto che a volte sembra che questa sia definibile oggi come un insieme di tecnologie utilizzate al fine di ristrutturare cervelli, parcellizzata in una serie di studi specialistici riguardanti singoli stimoli che necessitano di interventi settoriali del tutto privati e sradicati dalle condizioni sociali e culturali che plasmano la vita dell’essere umano; inoltre, se ogni azione viene letta come niente più se non una conseguenza di una catena di stimoli e processi fisiologici sovradeterminati, viene meno la possibilità di concepire l’atto di un individuo come frutto della propria singolarità. Se senza un minimo di riduzionismo qualunque studio è impossibile, tale riduzionismo tuttavia, dovrebbe essere considerato un momento del lavoro, necessario, ma non esaustivo, una fase alla quale dovrebbe susseguirsi un’altra fase, quella cioè di un’integrazione complessa (Benasayag 2016). Sembra invece che le cose non vadano in questa direzione, tanto che più parliamo di cervello, più ci dimentichiamo della mente e tanto più ricerchiamo regole, cause, logica, più prendiamo le distanze dalla poesia e dalla bellezza dell’imprevedibile, come se non ci fosse possibilità di far coesistere queste due dimensioni, quasi fossimo obbligati ad una scelta dicotomica, come se ci dimenticassimo che il cervello non è un computer che lavora all’elaborazione delle informazioni ma una realtà profondamente radicata nel corpo da cui raccoglie stimoli e informazioni, costantemente modellata dall’ambiente e dalle relazioni che instaura con esso. Siamo soliti pensare al mondo fisico esterno come a qualcosa di separato da un mondo mentale interno, tuttavia “il mondo mentale, la mente, il mondo dell’elaborazione dell’informazione, non è separato dall’epidermide” (Bateson 1970).

È possibile quindi che una realtà complessa quale quella in cui viviamo, richieda una visione complessa che non proceda per esclusione, ma per integrazione; scienza e società, mente e corpo, corpo e ambiente, ordine e caos, non sarebbero altro allora, che due parti di un’unica totalità.

Adottare un’ottica complessa implica accettare innanzitutto che fenomeni socioculturali non possano essere ridotti a modelli onnicomprensivi e deterministici e che la complessità non riguarda solamente la quantità di unità che ci prefiggiamo di calcolare, ma comprende anche una dose di casualità relativa ai limiti sia dei fenomeni stessi, sia del nostro intelletto. Ciò non significa sostenere un relativismo assoluto della realtà, o una totale casualità, ma piuttosto accettare che in ogni organismo e in ogni relazione che esso instaura con il suo ambiente, sia intrinseca una certa dose di disordine e complessità in coesistenza con ordine, chiarezza e semplicità (Morin 1999).

Il pensiero complesso è mosso da una tensione costante verso un sapere non settoriale, riduttivo e parcellizzato, nella consapevolezza che ogni conoscenza è comunque necessariamente incompiuta e incompleta. Una visione non complessa conduce a pensare che ci sia una realtà fisica separata da una psicologica, separata a sua volta da una realtà biologica, economica, sociale e così via; ognuna di queste categorie diviene allora oggetto di uno studio e di un’interpretazione che segue un modello unidimensionale, che non prende in considerazione l’influenza che ognuna di esse ha sull’altra, che dimentica quanto ad esempio un fenomeno economico possa avere ripercussioni sulla dimensione psicologica. Adottare una prospettiva unidimensionale ha un effetto impoverente ed è destinata a fallire poiché in una realtà complessa tutto è correlato, tutto è multidimensionale ed ogni dimensione si collega ad altre dimensioni; non esistono da una parte l’individuo e dell’altra la società, i due fenomeni sono inseparabili e interdipendenti. La società è prodotto delle interazioni tra gli individui che attraverso queste interazioni la plasmano, e la stessa società a sua volta retroagisce sull’individuo, influenzandolo e modificandolo; gli individui pertanto producono la società, la quale produce gli individui. Il processo storico ed evolutivo non è quindi lineare, ma circolare e non del tutto prevedibile; solo riconoscendo questa natura complessa dell’universo possiamo accettare e prendere coscienza del fatto che il nostro sapere non potrà mai essere totale e che non potremo mai sfuggire all’incertezza (Ibid.).

Questa lettura complessa della realtà ha grandi implicazioni anche dal punto di vista della cura e nel modo in cui la concepiamo. Lavorare per il benessere della persona implica saper dialogare con la complessità del soggetto e con la complessità della realtà in cui esso vive: sociale, culturale, familiare (Cambiaso, Mazza 2018); significa accettare il limite del nostro sapere e delle nostre stesse azioni. Solo muovendoci in questa direzione riusciremo a garantire all’altro ciò che di più prezioso possiede: la libertà, l’essenza di ciò che è umano, la vita stessa.

In quanto professionisti della salute mentale siamo eticamente obbligati a fare una scelta; possiamo scegliere un mondo in cui vita e cultura siano segmenti alla mercé di tecnologia e macroeconomia, o un mondo in cui si producano nuovi paesaggi da parte della società e della cultura, che includano e sviluppino una tecnologia “addomesticata” da e per la nostra stessa vita (Benasayag 2016).

Riferimenti bibliografici:

Bateson G. (1970) Forma, sostanza, differenza. Conferenza per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, Institute of General Semantics

Benasyag M. (2016) Il cervello aumentato, l’uomo diminuito. Edizioni Centro Studi Erikson, Trento

Benasayag M. (2019) Funzionare o esistere. Vita e Pensiero Editore, Milano

Cambiaso G., Mazza R. (2018) Tra intrapsichico e trigenerazionale. La psicoterapia individuale ai tempi della complessità. Raffaello Cortina Editore, Milano

Morin E. (1999) Introduzione al pensiero complesso. Gli strumenti per affrontare la sfida della complessità. Giulio Einaudi Editore, Torino

Link utili:

1 Comment on “Prospettive multidimensionali: leggere la realtà in modo circolare, guardare al mondo in un’ottica di complessità

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