Perché la serie Squid Game ha avuto così tanto successo? Ad alcuni mesi di distanza dall’uscita e dall’apice del suo successo, si propone una riflessione in merito, provando a leggere e interpretare la trama narrativa attraverso una prospettiva psicosociale.

La serie tv che arriva nel 2021 dalla Corea del Sud e prodotta da Netflix, ha registrato un vero e proprio record nella storia degli show a puntate : 111 milioni di spettatori in 94 Paesi del Mondo. È stato definito un “fenomeno della cultura pop” ma come mai? Si limita ad essere un fenomeno culturale transitorio o c’è anche altro?

Sicuramente oltre ad essere stata in testa alle classifiche dei più visti su Netflix per settimane, ha acceso l’opinione pubblica: gruppi di genitori, insegnanti e una certa parte di psicologi, in Italia, l’hanno condannata per il contenuto “altamente violento” tanto da chiedere che la serie fosse rimossa dalla piattaforma.

Il protagonista, Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), un uomo divorziato e sommerso dai debiti, viene avvicinato da un misterioso uomo d’affari che gli propone di partecipare a una serie di vecchi giochi per bambini in cambio della promessa di una solida vincita in denaro. L’uomo spinto dal suo profondo bisogno e dall’ineluttabilità della condizione sociale accetta di partecipare.

Rinchiuso in un luogo sconosciuto insieme ad altre 456 persone con gli stessi problemi, scopre un ambiente fatto di violenza e sorveglianza.

La competizione si rivela presto una perversa macchina di tortura e di morte, al fine di divertire dei cinici e annoiati multimiliardari.

La simbologia e il rimando alla realtà sono evidenti: il 99% lotta a costo della vita per contendersi un pezzo di “ricchezza” e l’1% ne tira le fila.

L’intera trama narrativa, quindi, si sviluppa intrecciando la dimensione individuale a quella collettiva sia attraverso i contenuti sia per gli aspetti tecnici, come la regia.

La serie in sé, dunque, diventa il pre- testo per uno scivoloso dialogo interiore che si innesca di fronte alle provocazioni etiche del film. È la stessa natura umana che viene interrogata su: violenza, supremazia del più forte sul più debole, possibilità di scelta e disuguaglianza. In una parola sul capitalismo e le sue forme.

La scelta può essere davvero libera? Le condizioni che determinano benessere o malessere sono davvero le stesse per tutt* ? Rappresentando la vita come una gara (secondo la logica della competizione) l’ideologia meritocratica giustifica l’uguaglianza come condizione necessaria per dare alla società dei vincitori, creando di fatto, disuguaglianza. Il regista propone tale dinamica attraverso il tema del Gioco. Per Winnicott, il Gioco è sempre un’esperienza creativa, la prima che il bambino fa, e la capacità di giocare in maniera creativa permette al soggetto di esprimere l’intero potenziale della propria personalità, “grazie alla sospensione del giudizio di verità sul mondo, a una tregua dal faticoso e doloroso processo di distinzione tra sé, i propri desideri, e la realtà, le sue frustrazioni”. Quindi è il modo attraverso cui il bambino scopre il mondo, impara a conoscerlo e si incanala verso l’età adulta. In Squid Game il “mito dell’infanzia e dei giochi” viene pervertito (reso perverso) , ribaltato in senso macabro e grottesco in qualcosa di crudele e violento. Il regista ha dichiarato: “volevo scrivere una storia che fosse un’allegoria o una favola sulla moderna società capitalistica, insomma qualcosa che descrivesse una competizione estrema nella vita”, utilizzando personaggi, mondi e sensazioni che ognuno incontra nella vita reale.

La violenza dei giochi è stato, infatti, l’aspetto che ha mosso lo stomaco e smosso le “masse”.

Vedere, osservare dallo schermo e, grazie ad alcuni artifizi di regia anche attraverso occhi dei “Vip” (i multimiliardari alla cabina di comando), scene ad alta intensità di violenza, connette ciascuno spettatore con una parte di sé quasi morbosa, per cui guardando ciò che dovrebbe essere proibito, si trasgredisce per il solo fatto di aver guardato. Forse è questo movimento interno che porta una parte della critica a condannare la serie. Ma non è, forse, una parte che appartiene alla natura dell’Essere Umano? L’ ipotesi è che probabilmente è una parte che, resa cosciente, può spaventare e mettere a disagio.

Per altro verso, invece, poterla vedere proiettata sullo schermo è un modo di liberarsene (renderla Altro da Sé), di agire un controllo su di essa. Lo stesso meccanismo, ad esempio, per cui le serie TV che funzionano di più sono quelle che sviluppano una trama medica: la malattia e il pericolo della morte spaventano e poterle vedere è un modo per esorcizzare e controllare la paura, che altrimenti sarebbe ingovernabile.

In una costante dialettica dall’individuale al collettivo, l’aspetto della lotta per la supremazia del più forte sul più debole è ciò con cui la pandemia da Covid 19 ha costretto a confrontarci dal 2020 ad oggi. Si pensi alla corsa alle provviste dei primi mesi dell’epidemia; o all’ accaparrarsi della possibilità vaccinale da parte dei paesi del Nord del Mondo a scapito di quelli del Sud. I due livelli, micro e macro, si intrecciano continuamente nella serie: da una parte c’è tutto ciò che accade “dentro”, sull’isola e in questa struttura in cui i partecipanti, gioco dopo gioco, si conoscono, si sfidano, si raccontano, vincono e perdono, vivono e muoiono. Dall’altra parte c’è il “fuori”: la vita da cui ciascun partecipante proviene, che è causa e ragione del proprio star lì, e che per tutti è caratterizzata da un certo grado di disagio: isolamento, indebitamento, emarginazione, pressione sociale. Le disuguaglianze sociali che accomunano le vite di questi protagonisti comprendono disuguaglianze materiali, simboliche, di genere, di potere, di esercizio dei diritti e nascono da inique politiche di distribuzione delle risorse. A volte si tratta di disuguaglianze che i protagonisti hanno “ereditato” dalle proprie famiglie, a dimostrazione del fatto che, attraverso il meccanismo della trasmissione intergenerazionale delle disuguaglianze, una società diseguale non può che produrre sofferenza, nei propri cittadini e in quelli che verranno.

Un aspetto curioso e interessante è che il regista stesso, vittima del meccanismo capitalistico della produzione, ha dichiarato di essersi “esaurito” sotto il profilo fisico, mentale ed emotivo nei mesi in cui ha dato vita alla serie e di essersi inoltre ispirato a una vicenda personale risalente al 2009 in cui lui e la sua famiglia si sono ritrovati in un momento di forte crisi finanziaria, con la necessità di ricorrere a diversi prestiti per poter sopravvivere. Questo aspetto è fortemente sottolineato nella serie e mostra un aspetto molto concreto e attuale dell’odierna economia coreana. La Corea del Sud è un Paese che è andato incontro a una forte crescita negli ultimi 60 anni: da paese povero (addirittura peggio di Senegal, Zambia e Ghana) è diventato una delle quattro “Tigri Asiatiche”. Questa crescita economica, tuttavia, è stata tanto forte quanto diseguale: molti cittadini sono rimasti totalmente indietro, le disuguaglianze si sono accentuate in maniera spaventosa, il 50% degli anziani vive sotto la soglia di povertà, c’è un altissimo tasso di disoccupazione giovanile (il 22% nell’anno 2020). Quella che si è venuta a configurare è una società costituita da una grande ricchezza concentrata nelle mani di poche famiglie ricche e potenti che gestiscono conglomerati aziendali di fama mondiale (pensiamo alla Samsung) e, per il resto, opportunità limitate, scarsa mobilità sociale accompagnate da una forte pressione familiare e sociale a raggiungere il successo. Non meraviglia che a pagarne le conseguenze siano soprattutto i giovani: si stima che la classe maggiormente indebitata è costituita proprio da uomini e donne di 30 anni , che arrivano ad avere prestiti pari al 270% del loro reddito annuo.

Da una parte quindi Squid Game ha acceso un faro sulle disuguaglianze di classe nella moderna Corea del Sud e dall’altra ha dipinto un ritratto, universale e globalmente valido, della disperazione dei cittadini spinti sul baratro dal sistema capitalistico.

Freud definisce Perturbante la sensazione di spaesamento e di estraniamento. E’ il non nascosto, è tutto ciò che non dovrebbe essere rappresentato e che dovrebbe restare segreto, nascosto, intimo ma che invece è riaffiorato, e riemerso, è l’estraneo segretamente familiare che ci perturba, ci mette in uno stato di incertezza e di inquietudine. E’ qualcosa che prima era familiare nella vita psichica fin dai tempi antichissimi (credenze superate o rimosse che sopravvivono nei primitivi e, soprattutto, nei bambini) e che poi è stato estraniato dal soggetto attraverso il processo di rimozione; quindi è qualcosa di superato e rimosso che ritorna.

Forse è stata proprio questa la “potenza di Squid Game”: aver messo ogni spettatore in contatto con parti della propria natura umana tenute silenti. Aver messo ciascuno davanti alla “propria” storia di cittadin* di un mondo sempre più diseguale e dei propri sforzi di sopravvivere in questa società. A nostro parere, altro merito della serie di Netflix è aver reso visibile e spiegato bene il concetto di salute come bene comune: la salute dei protagonisti della serie (o meglio ciascuno dei loro malesseri) non è un fatto individuale, privato; ma ha a che fare con la creazione di una società più equa.

La serie termina in modo “ambiguo” e si vocifera di un eventuale seguito. A noi piace pensare che la speranza che la serie vuole lanciare sia quella di puntare l’attenzione finalmente sulle politiche di governance, sociali ed economiche che influiscono sulla distribuzione di opportunità e risorse nel mondo. Tali strategie, se vogliamo che siano efficaci, devono essere universali e proporzionate e agire su tutti i livelli (non solo quello sanitario), promuovendo pratiche di riconoscimento e legittimazione dell’altro su tutti i livelli.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

“Gioco e Realtà”, D. Winnicott ,1971.

“Il Perturbante”, S. Freud, 1919
 https://www.stateofmind.it/2017/01/perturbante-freud/

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