Capita sempre più frequentemente, a chi svolge la professione di psicoterapeuta, di confrontarsi con persone spinte ad iniziare un percorso in seguito all’esperienza di un attacco di panico. La diagnosi di Disturbo di Panico, in accordo con la letteratura specialistica e le ricerche epidemiologiche, è infatti in forte aumento in tutte le società industrializzate, indipendentemente da qualsiasi variabile socio-economico-culturale.
Le ricerche di esito indicano peraltro che i risultati relativi alla clinica degli attacchi di panico sono tutt’altro che soddisfacenti: un terzo dei pazienti a fine trattamento sperimenta ancora attacchi di panico persistenti o altri sintomi legati al disturbo di panico, e diverse meta-analisi sono concordi nel sottolineare il forte rischio di ricaduta nel tempo (NICE, 2011). Questi risultati rendono evidente come sia necessario proseguire, e progredire, nello studio eziologico di questo tipo di sofferenza, fino a sviluppare nuovi approcci terapeutici che si rivelino nel tempo maggiormente efficaci.
Secondo il DSM-5 (American Psychological Association, 2009), e più in generale secondo la gran parte della letteratura in merito, il “disturbo di panico” è caratterizzato da attacchi di panico ricorrenti, seguiti da una specifica preoccupazione riguardante questi attacchi e una generale riorganizzazione comportamentale intorno a questa preoccupazione (evitamento, bisogno di essere accompagnati …). Sempre il DSM-5 descrive l’attacco di panico così: “episodi caratterizzati dalla comparsa improvvisa di un’intensa paura che raggiunge il picco in pochi minuti e si accompagna a tutti o alcuni dei seguenti sintomi: tachicardia o palpitazioni, tremori, senso di soffocamento, dolore al petto, sudorazione, sensazione di asfissia, senso di svenimento, vertigine o testa leggera, nausea, brividi o vampate di calore, paura di perdere il controllo, paura di morire, senso di derealizzazione, formicolii o sensazioni di torpore”.
Esiste un consenso pressoché unanime nel considerare l’attacco di panico come un “attacco estremo di paura”: è sempre la paura la sensazione intorno a cui insiste la letteratura degli attacchi di panico.
In questo scritto vorremmo proporre una nuova lettura della fenomenologia degli attacchi di panico e le nuove traiettorie terapeutiche che da essa scaturiscono. Questa teoria è stata proposta originariamente dal prof. Gianni Francesetti (Francesetti, Alcaro e Settanni, 2020) che, in accordo con le sue osservazioni cliniche nate in un’ottica che egli definisce “fenomenologico-gestaltica” e attraverso lo studio delle neuroscienze affettive di Jaak Panksepp (Panksepp e Biven, 2012), cerca di spostare il focus dalla paura alla solitudine.
In questa sede, quindi, l’attacco di panico non sarà considerato un attacco estremo di paura, bensì un attacco acuto di solitudine. Questa nuova lettura del panico non mira esclusivamente a proporre un modo nuovo di interpretare e incontrare tale sofferenza, ma si pone anche l’obiettivo fondamentale di abbandonare in maniera sempre più decisa quella tendenza della psichiatria moderna di far coincidere il soggetto con il “disturbo”. Allargando le determinanti della sofferenza a fattori sociali e relazionali diventa più agile ragionare in termini meno oggettivanti, meno reificanti e patologizzanti. In questo scritto capiterà che si faccia riferimento ad etichette diagnostiche e categorizzazioni riduzionistiche tipiche di un certo approccio che, non si può non considerarlo, è ad oggi l’approccio dominante, quello con cui ci si deve inevitabilmente confrontare e che occorre superare. Il primum movens di questa esplorazione è proprio il superamento di tale visione.
L’idea che il panico -per quanto istintivamente venga da associarlo all’emozione della paura- potrebbe in realtà originarsi da qualcos’altro prende vita da una serie di constatazioni che, sposando la teoria dell’attacco estremo di paura, non riescono a trovare risposta. Ad esempio: la paura solitamente è accompagnata da un’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, com’è possibile che nel panico ciò non accada? Oppure: è risaputo e ormai comunemente accettato che nel momento in cui si decida di intervenire farmacologicamente si farà ricorso ad antidepressivi e non ad ansiolitici, perché? Inoltre: come mai nel panico si sperimenta spesso una difficoltà a respirare, la cosiddetta “fame d’aria”, che non è quasi mai presente durante episodi di paura generata da stimoli esterni?
L’idea che questo qualcos’altro possa essere la solitudine viene da una serie di osservazioni, alcune da ricerche sperimentali neurofisiologiche ed etologiche e altre di natura prettamente clinica.
Oltre a queste domande che nascono da un’analisi di carattere neuropsicologico vi è poi l’osservazione dell’esperienza della persona, la cui esplorazione è uno dei punti di forza dell’approccio fenomenologico-gestaltico proposto da Francesetti. L’analisi minuziosa del vissuto dell’individuo porta a notare come la paura, nonostante sia la protagonista indiscussa all’interno della narrativa del paziente, non è la prima cosa che il soggetto esperisce. La paura è un’emozione secondaria, l’esperienza primigenia è davvero quella di morire o di impazzire, e la paura si attiva proprio sulla base di questa esperienza. Non è un caso che chi sperimenta per la prima volta un attacco di panico non si rechi dallo psichiatra, ma al pronto soccorso o dal medico; molto spesso le persone, prima di prendere in considerazione cause di natura più psicologica, si sottopongono a una batteria di esami medici volta a scongiurare l’esistenza di qualsiasi problema organico o sintomatologia fisica. In questa prospettiva quindi, nella fenomenologia dell’attacco di panico la paura è la sensazione da cui la persona è sopraffatta, ma è secondaria e conseguente all’esperienza di morire o impazzire che emerge come un disagio a livello fisico. In questi casi, gli individui sarebbero in grado di mentalizzare la paura, di riconoscerla e di esprimerla, ma non di mentalizzare i segnali corporei che indicano la mancanza di mediazione affettiva in una situazione di sovraesposizione al mondo (Fonagy e Target, 1997), e quindi del bisogno di un altro significativo che ci aiuti a co-regolare affettivamente questo forte disagio (Shore, 2003). Questi sentimenti non sono mentalizzati come solitudine ed emergono solo più avanti grazie al processo terapeutico. Considerare l’attacco di panico come una complessa esperienza che implica una solitudine non mentalizzata è proprio la tesi che Francesetti propone.
Il panico e l’esperienza di essere sovraesposti al mondo senza la necessaria mediazione
L’etimologia della parola “panico” trae origine dal Dio Pan, figura mitologica greca storicamente rappresentata come un essere dalle forme per metà umane e per metà caprine. La sua storia, soprattutto se riletta alla luce di questa nuova chiave di lettura, è molto interessante: la madre di Pan, la ninfa Penelope, decide di andare nella foresta per dare alla luce il figlio, ma non appena questo nasce si accorge di aver messo al mondo un essere mostruoso, mezzo uomo e mezzo capro. Inorridita e terrificata corre via lasciando il neonato Pan da solo nella foresta, esposto al mondo senza un riparo e senza la necessaria e naturale mediazione di una madre.
Il collegamento che la mitologia stabilisce tra il terrore e la solitudine, tra il panico e la sensazione di essere sovraesposti al mondo senza una sufficiente mediazione, ha sorprendenti somiglianze con le evidenze cliniche ed epidemiologiche.
Questa suggestione che ci arriva dal mito attraverso l’analisi etimologica della parola “panico”, che è poi la tesi centrale di questo contributo, diventa ancora più interessante nel momento in cui si nota che attraverso di essa si riesce a dar senso a quattro elementi talvolta collegati al panico che altrimenti rimarrebbero fondamentalmente inspiegabili: l’agorafobia, la difficoltà a stare da soli, le difficoltà respiratorie e il momento dell’esordio.
Per quanto riguarda i primi due è presto detto: l’agorafobia, definibile come l’estrema paura di trovarsi in mezzo alla piazza/folla, ricalca la sensazione di “essere sovraesposti al mondo senza una sufficiente mediazione”. Anche il generale timore a stare da soli e la tendenza a sentire la necessità di essere accompagnati nelle uscite trova coerenza nella connessione terrore-solitudine.
Per spiegare il terzo elemento, la difficoltà a respirare, è necessario fare riferimento agli studi etologici di Jaak Panksepp e ai suoi risultati nel campo delle neuroscienze affettive. Combinando ricerche sperimentali sia su animali che su esseri umani, Panksepp e collaboratori hanno individuato l’esistenza di sette “sistemi emotivi” primordiali (circuiti neuronali collegati alle emozioni di base) che giocano un ruolo fondamentale nell’organizzazione della personalità umana. Per quanto riguarda il tema trattato ci interessa in particolare sapere che sono stati individuati due diversi e separati sistemi di allarme nel nostro cervello, i cosiddetti “fear system” e “separation system”. Molto in breve: il primo è attivato dalla percezione di un pericolo esterno, a livello neurofisiologico attiva l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (l’asse HPA) e la produzione di cortisolo e adrenalina, e porta a una risposta di attacco o fuga. Il secondo invece si attiva quando il soggetto viene separato da un “altro significativo”, attiva la produzione di neurotrasmettitori oppioidi, di ossitocina e prolattina, e porta a una risposta di chiamata, la cosiddetta “separation call”. Viene immediato domandarsi allora, se le premesse di questo discorso fossero esatte, come mai le persone che soffrono di attacchi di panico “non chiamino”, e in generale non portino in terapia tematiche di solitudine, mostrandosi anzi spesso particolarmente autonomi e indipendenti, oltre che reattivi all’esplorazione della solitudine. Francesetti sostiene che la sensazione di sovraesposizione non mediata, di solitudine, sia negata, spesso in relazione a esperienze infantili disfunzionali e stili di attaccamento che hanno privilegiato in maniera traumatica l’autonomia. È esperienza comune di chiunque abbia avuto a che fare con persone con una sofferenza panica notare come emerga dalla loro narrativa una particolare sensibilità al tema dell’autonomia, come sia frequente cogliere nel racconto dell’infanzia una spinta da parte dei genitori a cavarsela da soli, una difficoltà degli stessi a riconoscere le proprie difficoltà e fragilità, un forte disagio nell’ammettere il proprio bisogno di sostegno relazionale e a ricercarlo, oltre che una generale svalutazione dei bisogni psicologici e affettivo relazionali. Sentire frasi come “volere è potere” o “chi fa da sé fa per tre” è esperienza comune quando si ha a che fare con questo tipo di sofferenza. La difficoltà respiratoria sarebbe così l’attualizzazione, la manifestazione odierna, la forma che ha assunto anni dopo l’antica chiamata del soggetto che a furia di essere stata frustrata è stata prima inibita, e poi dissociata e negata. A livello neurofisiologico, il fenomeno del soffocamento e della fame d’aria sono spesso collegati all’attivazione del separation system e quasi mai del fear system[1].
Arriviamo così ad analizzare il quarto e ultimo elemento, il momento in cui tipicamente si assiste all’esordio degli attacchi di panico nella vita dei singoli individui.
Partiamo da una constatazione di carattere statistico. Sembrano esserci soprattutto due macrocategorie di eventi che portano a sviluppare sintomi di panico: quelli che avvengono successivamente al decesso di una figura significativa della vita del soggetto e quelli che avvengono in adolescenza o nella prima età adulta. Nel primo caso è evidente come l’improvvisa mancanza di una figura di riferimento, che tendenzialmente nella vita del soggetto ha ricoperto in parte il ruolo di mediazione affettiva e di protezione, esponga al rischio di sentirsi “soli e sovraesposti al mondo”.
Nel secondo caso, al di là dell’età specifica, si è notato come l’esordio avvenga proprio in quel periodo della vita in cui uno dei compiti evolutivi è quello di separarsi, fisicamente e/o emotivamente, dal contesto familiare e domestico primario. Quando durante l’adolescenza si sperimentano le prime spinte all’emancipazione e all’indipendenza, quando terminati gli studi ci si trova a spostarsi dalla casa in cui si è cresciuti per andare a lavorare o studiare altrove, quando si costruisce una propria famiglia e si stabilisce così definitivamente l’autonomia da quella di appartenenza. Francesetti formula due concetti, tratti sempre dal mondo ellenistico, che sintetizzano questi due elementi contrapposti: oikos e polis. Se l’oikos rappresenta il focolare domestico, con tutti i suoi investimenti reali ed affettivi, la polis rappresenta la città, il mondo esterno. Quando la persona, consapevolmente o meno, sente di star passando dall’oikos alla polis, è il momento in cui rischia di essere sopraffatto dalla sensazione di sovraesposizione a tale mondo esterno.
Naturalmente, l’istinto che a una certa età spinge a diventare autonomi, separarsi dalla famiglia di origine e dalle appartenenze che hanno caratterizzato la nostra giovinezza con l’intento di individuarsi, è sano e fisiologico; il problema però si pone quando si osservano le caratteristiche di questa società cosiddetta “postmoderna”. A un’analisi neanche troppo approfondita non si potrà fare a meno di constatare, e la letteratura in merito non potrebbe essere più concorde e unanime, come la contemporaneità sia caratterizza da forti spinte individualistiche, da solitudine, da mancanza di appartenenza relazionale, dal progressivo collasso di tutti quegli organi che storicamente hanno avuto la funzione di creare “comunità” intorno ad essi (la politica e lo stato, la famiglia, la chiesa …); se consideriamo un continuum appartenenza-individuazione è palese come sempre di più ci si stia spingendo verso l’estremo dell’individuazione. Cristopher Lasch l’ha definita “la cultura del narcisismo” (1979). Se da una parte la perdita di riferimenti forti e di appartenenze solide si accompagna inizialmente a un’esperienza di libertà e apertura di possibilità, spesso spiccatamente individualistica, dall’altra questa maggior libertà ha un costo, quello della solitudine. Vi sarebbe quindi una doppia spinta cui il soggetto è sottoposto: quella più familiare, che ha insegnato al soggetto a “reprimere e negare la chiamata”, e quella più sociale, che lo ha privato di qualsiasi riferimento comunitario e che ha insegnato al soggetto solo i valori del successo e della realizzazione personale e non quelli dell’appartenenza relazionale e del senso di “collettività”. Anche così si spiega la crescita esponenziale cui stiamo assistendo nell’epidemiologia dei cosiddetti “disturbi di panico” in Europa e America settentrionale.
Oltre alla dissociazione della chiamata esiste quindi una forma di dissociazione più ampia, quella che caratterizza il nostro campo sociale: la solitudine sembra essere un elemento centrale della nostra società postmoderna, e al contempo un elemento negletto. La curiosa assenza della solitudine nella concettualizzazione del disturbo di panico potrebbe quindi essere il risultato di una doppia spinta: quella individuale (un sentimento di solitudine negato nella storia personale) ma anche quella sociale: un bisogno dissociato di legami relazionali intimi che medino tra noi e il mondo.
Riteniamo sia importante sottolineare come, tra gli altri, quest’ultimo aspetto sia particolarmente coerente con la concettualizzazione dell’esistenza umana e della cura che il nostro Sportello porta avanti da tempo. Recentemente lo Sportello TiAscolto si è impegnato a redigere quelli che considera i propri capisaldi, i “principi fondamentali che informano e da cui deriva il senso pratico del nostro dispositivo, che rappresentano insieme i presupposti da cui muovono le nostre azioni, il fine verso cui tendono e gli strumenti attraverso cui il dispositivo agisce”. È proprio il primo di questi a spiegare in sintesi perché non sia pensabile riuscire a “cogliere l’essenza” dell’individuo senza considerare il contesto e la società in cui vive, la collettività di cui si nutre (e che, a sua volta, nutre):
“Il personale è politico”: vi è essenziale continuità tra l’esperienza personale e quella politica, tra l’individuo e la collettività.
Partendo dal gestaltico “l’insieme è più della somma delle parti”,e attraversando la fenomenologia, Francesetti giunge a una teorizzazione della psicopatologia “di campo” (Quaderni di Gestalt, XXVII, n. 2/2014) perfettamente in linea con questo caposaldo, e dunque anche l’eziologia del disturbo di panico non può fare a meno di tenere in considerazione aspetti non solo individualistici ma anche propriamente sociali e sociologici. La nostra è una visione dell’esistenza umana e della sofferenza che non può non considerare l’individuo come inserito in un contesto (anche e soprattutto relazionale e sociale) che influenza[2] profondamente il suo esser-ci (il dasein Heideggeriano non a caso è un con-esserci).
Conclusioni e implicazioni per la clinica
Sorge a questo punto spontanea una domanda: perché, nonostante il grande numero di indizi provenienti sia dal mondo della ricerca che da quello della clinica,l’attacco panico è ancora oggi considerato un attacco estremo di paura senza che sia considerata e riconosciuta l’esperienza di solitudine che è in esso implicata? Riteniamo che la risposta sia che la dissociazione che protegge dal sentire la solitudine influenzi sì il paziente, ma anche il terapeuta. La presenza di una spinta sociale all’individualismo e alla solitudine che stiamo postulando influenza anche il terapeuta, per questo è importante ne sia consapevole. Se non lo è rischia di farsi prendere dalle forze del campo non riuscendo ad individuarle ed usarle, se invece lo è può fare quello che Francesetti chiama “prestare la carne” al paziente, sentendo e portando nel campo terapeutico l’impatto di questa forza negata;avviene così che l’unico a sentire la solitudine in terapia è il terapeuta. È una sensazione comune nella cura di questo tipo di sofferenza quella di essere inutile, di non essere ascoltati, di essere soli, di non riuscire a raggiungere l’altro, di non riuscire ad inserirsi nel suo flusso di parole. La solitudine, che non può essere vissuta dal soggetto in quanto negata, viene vissuta dal terapeuta che, appunto, presta la carne al paziente e si fa portavoce delle forze del campo.
Il progressivo disvelamento e capacità di (ri)vivere tale solitudine, l’integrazione di tale sensazione di solitudine all’interno della propria storia ed esperienza è in questa ottica uno dei più importanti obiettivi nella cura degli attacchi di panico, e solo se il terapeuta riesce a riconoscere e legittimare questa sensazione tutto ciò è possibile. Spesso l’emozione che emerge con il progressivo disvelamento di tale solitudine è la tristezza. Il tipo di solitudine che il soggetto sente è piuttosto specifica: l’esperienza è quella di essere solo, sovraesposto all’ambiente, senza una sufficiente mediazione protettiva.
Brevissimamente, per concludere, vorrei esplicitare almeno tre intuizioni cliniche che la presente concettualizzazione dell’esperienza degli attacchi di panico può sollecitare. La prima credo sia ormai chiara, ed è l’importanza di esplorare il tema della solitudine. Come abbiamo visto, nonostante la paura sia l’emozione che a prima vista sembra sopraffare il paziente, i temi legati alla solitudine e alla sovraesposizione al mondo dovrebbero essere gradualmente considerati ed esplorati; dal momento che l’esperienza della solitudine e l’emozione della tristezza sono spesso dissociati bisogna essere molto prudenti e pazienti, per lungo tempo potrebbe essere il terapeuta l’unico elemento in grado di sentire, riconoscere e legittimare questi temi, spesso si incontra una particolare resistenza del cliente ad indagare il proprio coinvolgimento in questo tipo di tematiche, ma c’è il forte rischio che se anche il terapeuta evita di esplorarle il nucleo del problema non verrà mai affrontato.
La seconda implicazione clinica riguarda l’importanza di indagare, nella storia recente della persona, la presenza di passaggi esistenziali significativi. Molto spesso l’esordio dei sintomi di panico è vissuto come qualcosa di completamente inspiegabile, senza nessuna connessione con un qualsiasi evento di vita recente. Diventa così particolarmente interessante indagare se il paziente abbia in quel periodo compiuto un passaggio esistenziale nella direzione di una maggior autonomia (andar via di casa, trasferirsi, allontanarsi fisicamente o emotivamente dalle figure di riferimento …) o abbia subito un lutto di qualcuno per lui significativo.
L’ultima implicazione è quella di dare particolare rilevanza al ruolo che nella vita di tutti noi hanno le appartenenze affettive e in generale il supporto relazionale. Nonostante gli individui spesso chiedano di ottenere nuovamente e al più presto l’autonomia perduta, al contrario ha senso che vengano supportati nel vivere e dare valore all’esperienza dell’appartenenza relazionale, andando nella direzione non dell’indipendenza ma dell’appartenenza. La relazione terapeutica può essere una mediazione affettiva importante tra l’individuo e il mondo, e l’appartenenza a tale legame può essere una delle esperienze più curative per questo tipo di sofferenza.
[1] Per una più esaustiva trattazione dei meccanismi che collegano l’inibizione della “separation call” con specifiche risposte neuroendocrine e neurofisiologiche si rimanda al già citato articolo di Francesetti oltre che alle trattazioni di Nelson e Pankspepp (1998), Klein (1993) e Preter e Klein (2008).
[2] Se adottiamo radicalmente l’ottica di campo, fenomenologicamente orientata, di Francesetti sarebbe erroneo dire “lo influenza”, perché essi (organismo-ambiente) si co-creano. Il concetto di campo consente di comprendere i fenomeni esperienziali come emergenti da una dimensione non riducibile all’individuale, né alla semplice somma degli individui in gioco. Ogni situazione relazionale attualizza infatti un campo originale: il vissuto soggettivo non è il prodotto di una mente o di un individuo isolato, ma un fenomeno emergente del campo attuale.[…] In un certo campo una certa esperienza emerge e non un’altra: l’esperienza è dunque un fenomeno emergente dal campo attuale, il quale è unico, effimero, co-creato, situato, corporeo, dinamico (cioè in movimento). È unico in quanto è funzione della situazione attuale, che è per sua natura irripetibile; effimero in quanto cambia col cambiare di qualsiasi elemento nel campo; co-creato in quanto espressione di ogni storia e intenzionalità presente; situato, in quanto esistente solo qui e ora, generando un tempo e uno spazio che si estendono fin dove la sua presenza produce una differenza esperienziale; corporeo in quanto sempre incarnato, circolarmente percepito e generato dalla corporeità vissuta; in movimento in quanto tende ad una evoluzione seguendo le intenzionalità di contatto in gioco.
È una concezione sistemica (ogni elemento influenza ed è influenzato dagli altri), gestaltica (i fenomeni emergenti non sono riducibili alla somma delle parti), contestuale (la concreta situazione attuale sostiene l’emergere di un dato campo di esperienza), olistica (ogni fenomeno esperienziale è corporeo). Per approfondimenti si rimanda all’articolo di Francesetti “La prospettiva di campo in psicopatologia e psicoterapia della Gestalt”.
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