Foto di Brian Merrill da Pixabay 

Da quando c’è stata la pandemia di Covid-19, si parla nuovamente molto di benessere psicologico e di salute mentale. Catalizzando processi di malessere diffuso nella nostra società, la pandemia ha dato una spinta al riconoscimento della pervasività e della capillarità della sofferenza psichica. Che cosa significa, tuttavia, ricominciare a parlare in maniera massiva di salute mentale? A quali categorie e concetti si fa riferimento? Circa due secoli fa, l’ampliamento massiccio dello sguardo medico sui comportamenti generali della popolazione, portava anche al progressivo aumento del potere delle istituzioni di regolamentare la vita e i corpi dei cittadini (Foucault, 1999). Oggi il rischio è che, in assenza di una riflessione alla base di questa corsa al ‘benessere psicologico’, e la scelta precisa di una visione di riferimento, la spinta verso la tutela di un diritto diventi il campo per una patologizzazione di massa delle esperienze delle persone1.

Un’importante evoluzione nel concettualizzare il benessere e la salute psicologica viene dal riconoscimento, da parte dell’OMS, dei determinanti sociali della salute mentale: ovvero come aspetti legati a concrete condizioni di vita influenzano e determinano le opportunità di salute, o viceversa il rischio di sofferenza – ad esempio, il reddito, il genere, le condizioni abitative, la rete sociale – ricollocando il disagio psichico e i sintomi psicologici in una relazione dinamica con il contesto (WHO, 2014). Tuttavia, in assenza di una cornice interpretativa chiara, i determinanti sociali rischiano di rimanere una lista astratta le cui relazioni con i diversi luoghi, città, società, resta indeterminata (si perdoni il gioco di parole).

Per questo, si propone qui di riflettere sulla sofferenza psicologica a partire dai concetti di biopotere, violenza strutturale e idioms of distress2. Seguendo un approccio di questo tipo, come si vedrà, il malessere psicologico può essere inteso come il risultato degli squilibri di potere che limitano l’accesso alle opportunità di salute; l’espressione di disagio che ne consegue, è a sua volta influenzata da vincoli culturali e opportunità di parola offerte dal contesto, piuttosto che rappresentare disturbi o sindromi oggettive e discrete.

Le società, in qualunque modo siano organizzate, sono caratterizzate anche dall’esistenza di rapporti di potere distribuiti in maniera diseguale tra le persone e le strutture che la compongono. L’applicazione del potere al dominio della vita umana, esercitando meccanismi di controllo sui corpi e la salute delle persone, è ciò che Foucault ha definito ‘biopotere’ (Foucault, 1980; 2003). L’esercizio del biopotere riguarda delle specifiche strategie di governo che regolano la salute, la vita, la morte e la malattia della popolazione in determinati periodi storici, sotto specifiche autorità e forme di conoscenza; tali strategie sono definite ‘biopolitiche’ (Rabinow & Rose, 2006). Alcuni esempi di biopotere e di biopolitica in diversi ambiti sono: politiche che regolano diritti e divieti di attraversamento dei confini internazionali; leggi che regolano diritto, divieto e modalità di aborto; costumi e politiche riguardanti la sessualità; prassi che regolano l’impiego di farmaci e il potere di diagnosi; prassi e politiche relative all’espressione e la presa in carica della sofferenza; politiche che regolano il diritto al lavoro o all’abitare. Altri, più recenti, le misure restrittive legate alla circolazione del COVID-19.

Uno degli effetti del biopotere è la distribuzione diseguale di diritti ed opportunità sulla base di alcune variabili sociodemografiche, come la classe sociale, l’appartenenza etnica, il genere, le condizioni di salute. Questo fenomeno è una delle facce di ciò che Paul Farmer ha definito ‘violenza strutturale’ (Farmer et al., 2009). Il concetto di violenza strutturale contribuisce a chiarire il modo in cui ingiustizie e disuguaglianze diventano esperienze individuali e collettive di salute, attraverso l’incorporazione di meccanismi sociali che “pongono a rischio individui e popolazioni […] (tipicamente, non coloro che sono responsabili della prepetrazione di tali disuguaglianze” (Farmer et al., 2006, p. 1686, traduzione nostra). In altre parole, squilibri di potere che creano disparità di accesso a diritti, risorse, opportunità di salute di vario genere, sono responsabili dello sviluppo di situazioni di malessere attraverso meccanismi tramite cui gli individui incorporano nella loro esperienza di salute le tensioni contestuali che vivono. Una persona che sviluppa una polmonite perché, ad esempio, vive in condizioni abitative insalubri, incorpora una condizione di povertà abitativa. Una persona che sviluppa un vissuto depressivo perché, ad esempio, è anziana e vive in solitudine, incorpora una condizione di disgregazione sociale.

Il termine ‘incorporazione’ indica, in questo senso, una dimensione semantica dell’esperienza di sofferenza: la persona che soffre comunica, attraverso il proprio malessere, l’esistenza di assetti sociali che producono la sofferenza stessa (Good, 1977). Si ricordi, ad esempio, che lo stesso Freud indicava nella condizione repressiva a cui le donne erano soggette dal patriarcato dell’epoca, a livello di sessualità ma anche di possibilità di espressione e affermazione di sé, le cause di ciò che la psicoanalisi chiama ‘isteria’ (Freud, 1909). Il concetto di ‘idioms of distress’ – in italiano, i ‘linguaggi del malessere’ – permette di collegare la dimensione del significato con quelle del contesto e del potere. Secondo l’antropologo americano Mark Nichter, gli idioms of distress sono modalità socialmente, contestualmente e culturalmente rilevanti di avvertire ed esprimere la propria sofferenza: una sorta di linguaggio performativo, verbale e non verbale, che risuona con il proprio mondo sociale in una maniera che rende comprensibile a sé e agli altri la propria esperienza di disagio (Nichter, 2010). Gli idioms of distress sono utilizzati soprattutto da coloro che hanno opportunità limitate di comunicare la propria sofferenza e di richiedere/ricevere aiuto, e possono includere il corpo, il linguaggio e l’azione (Desai & Chaturvedi, 2017). In una determinata cultura, esistono diversi modi di comunicare la sofferenza, e l’adozione di uno specifico idioma assume un significato contestuale rispetto a ciò che si vuole comunicare, la disponibilità di modalità espressive, la responsività degli altri (Nichter, 1981). In questo senso, ‘sintomi psicologici’ frequenti nella società contemporanea – come ad esempio gli attacchi di panico o l’uso di sostanze – possono essere letti in qualità di idioms of distress significativi nella nostra cultura, e adottati preferenzialmente da chi manca di altre opportunità per esprimere la propria sofferenza e ricevere cure: in altre parole, è probabile che saranno adottati da chi è vittima di violenza strutturale all’interno di relazioni di potere sfavorevoli.

In sintesi, è possibile rileggere il malessere psicologico non come il risultato di tensioni interne individuali, ma come l’effetto di meccanismi di costrizione contestuale che stimolano il ricorso a modalità specifiche per comunicare una sofferenza che il contesto stesso genera e non accoglie – se non sotto forma di presa in carico, tecnica. In qualsiasi situazione, esiste una dimensione biografica personale che scatena le reazioni dell’individuo; tuttavia, è la dimensione sociale/contestuale che può garantire o restringere le opportunità di espressione, supporto e salute per l’individuo che soffre. La dimensione culturale, infine, fornisce un linguaggio condiviso per esprimere una sofferenza che non trova canali di comunicazione.

Proviamo a chiarire con alcuni esempi, molto schematici e quindi da intendere come semplificazioni al solo scopo illustrativo. Una donna italiana che sviluppa un ‘disturbo depressivo’ all’interno di una dimensione familiare repressiva, o in relazione con un partner maltrattante, incorpora alcuni aspetti strutturalmente violenti del patriarcato e li comunica attraverso un idiom of distress rilevante, laddove manchino adeguati canali in grado di intercettare, accogliere e intervenire sulla sua sofferenza – una donna di provenienza mediorientale potrebbe scegliere un altro idioma, ad esempio il mal di cuore (Good, 1977). Un universitario che inizia a fare uso di ansiolitici per affrontare le sessioni di esami potrebbe invece stare incorporando delle pressioni socioculturali, familiari ed economiche rispetto alla performance e al successo, esprimendo le sue difficoltà attraverso il linguaggio dell’assunzione di medicinali (Nichter, 1981). In situazioni di separazione o lutto, è spesso la presenza o l’assenza di una rete sociale di supporto che fa la differenza tra la comparsa o meno di ‘sintomi psicologici’ in risposta ad eventi simili. Ognuno di questi esempi va calato all’interno della realtà locale di ciascuna di queste ipotetiche persone, in quanto ogni esperienza di sofferenza ha senso ed è comprensibile esclusivamente all’interno di un mondo locale e situato (Nichter, 2010).

Ritornando al tema di apertura: la pandemia ha scatenato reazioni di sofferenza psicologica a livello collettivo. Sarebbe tuttavia inutile cercare di rispondere a questa sofferenza ad un livello individuale, senza leggere quali sono gli squilibri strutturali che essa esprime: insicurezza economica, disgregazione sociale, mancanza di investimento sul futuro delle generazioni più giovani, e così via. Tutti questi elementi erano già presenti ben prima della pandemia, la quale non ha fatto altro che precipitare tensioni esistenti in un’interazione sindemica – ovvero, la condizione in cui due o più minacce per la salute interagiscono esacerbandosi a vicenda (Singer & Clair, 2003). Offrire un’attenzione individuale alle manifestazioni ‘idiomatiche’ di tali elemeanti strutturali di sofferenza può avere la duplice funzione di offrire una cura a chi ha la possibilità di accedervi, ma soprattutto di cogliere i segnali di ciò che nella nostra società non funziona, produce malessere e va cambiato. Il cambiamento va poi trasferito su un piano di realtà collettiva, affrontando i meccanismi che a livello sociale, economico, culturale, influenzano la vita dei singoli limitando loro possibilità e dando forma alle loro esperienze di salute. Chi si occupa di salute mentale e di sanità ha il compito di riportare ad un livello sociale e collettivo le problematiche individuali che quotidianamente incontra, instaurando un dialogo politico con la società, a partire dalle informazioni preziose che gli idioms of distress ci rivelano sugli strati più invisibili delle ingiustizie di ogni giorno.

In questa prospettiva, la psicoterapia e la psicologia clinica, giocano un ruolo fondamentale, facilitando o ostacolando la diagnosi non solo degli individui ma anche delle strutture e dei linguaggi sociali in cui si inseriscono. Le pratiche di cura, infatti, influenzano profondamente la cultura e la concezione della sofferenza presente all’interno di ciascuna comunità da cui sono influenzate. Nel passato, abbiamo proposto il termine psicoterapismo3 per descrivere gli effetti nocivi, anche culturali, della psicoterapia, di cui spesso è inconsapevole e che contribuiscono a diffondere una concezione individualizzante, apolitica e mercificata di salute e malessere e che mantengono un ordine sociale evitabilmente ingiusto e malato.

BIBLIOGRAFIA

Farmer P. E., Nizeye B., Stulac S., Keshavjee S. (2006). Structural violence and clinical medicine. PloS Med 3(10), e449, pp. 1686-1691.

Farmer P. E. (2009). On Suffering and Structural Violence: A View from Below. Race/Ethnicity: Multidisciplinary Global Contexts, Vol. 3, No. 1, Race and the Global Politics of Health Inequity (Autumn, 2009), pp. 11-28.

Foucault M. (1980). The History of Sexuality. Vintage Books, New York.

Foucault M. (1999). Gli Anormali. Corso al Collège de France (1974-1975). Universale Economica Feltrinelli, Milano.

Foucault M. (2003). Society Must Be Defended: Lectures at the Collège de France, 1975–76. Picador, New York.

Freud S. (1909). Cinque conferenze sulla psicoanalisi. Bollati Boringhieri, Torino 1977.

Good B.J. (1977). Il cuore del problema. La semantica della malattia in Iran. In Quaranta I. (a cura di) (2006). Antropologia medica: i testi fondamentali. Raffaello Cortina, Milano.

Nichter M. (1981). Idioms of Distress: Alternatives in the Expression of Psychosocial Distress: A Case Study from South India. Culture, Medicine and Psychiatry 5(4), pp. 379–408.

Nichter M. (2010). Idioms of distress revisited. Culture, Medicine, and Psychiatry, 34.2, pp. 401-416.

Rabinow P., Rose N. (2006). Biopower today. BioSocieties (2006), 1, pp. 195–217.

Singer M., Clair S. (2003). Syndemics and Public Health: Reconceptualizing Disease in Bio-Social Context. Medical Anthropology Quarterly, Vol. 17, No. 4 (Dec., 2003), pp. 423- 441.

WHO (2014). Social determinants of mental health. https://www.who.int/publications/i/item/ 9789241506809

Note

1 Oltre che, in un contesto dove c’è una forte spinta verso la privatizzazione della sanità, favorire processi di monetizzazione delle esperienze patologizzate, come insegna il fenomeno del disease mongering.

2 Questa riflessione va intesa come uno spunto di partenza, volto anche ad un approfondimento politico sui concetti di salute e disagio psichico, e non riflette necessariamente una posizione teorica maggioritaria all’interno dello Sportello.

3 https://radio32.net/dallo-psicanalismo-allo-psicoterapismo-per-una-politica-della-clinica-e-una-psicoterapia-critica/

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