Ci sono libri che fanno sprofondare la terra sotto i piedi lasciandoli giù a penzoloni.
“L’uomo con il magnetofono”, per i tecnici della cura, psicoterapeuti o psicanalisti, sicuramente è uno di questi.

Abbiamo scoperto l’esistenza di questo breve, esilarante e densissimo testo perché indicato da Robert Castel, tra le note de “Lo Psicanalismo”. Liberamente disponibile sul web, per i feticisti della carta, in italiano, è contenuto in “Un Singolare Gatto Selvatico” (ed. Ombre Corte), in cui si stratificano in ordine temporale i commenti che, a partire da Sartre, hanno provato con risultati controversi ad arricchire di significati e discorsi l’immediatezza della tragicomica vicenda in cui un ormai ex paziente, armato di un magnetofono, chiede conto degli esiti e delle modalità del lavoro svolto insieme allo psicanalista che lo ha “tenuto in ostaggio” per molti anni.

Il metodo clinico viene messo sul banco degli imputati insieme alla persona che ne è portatrice.

Alla violenza che Abrahams sostiene di aver subito durante gli anni di sedute e a cui risponde irrompendo in seduta con il magnetofono che violentemente impone al terapeuta, quest’ultimo, evita sommessamente il confronto che decide di chiudere aggiungendo la violenza di un ricovero coatto per il povero Abrahams.

Ma il magnetofono, nel frattempo, ha catturato la tenzone la cui registrazione originale è disponibile perfino su Youtube.

Attraverso il suo coraggio, o qualcuno potrebbe dire la sua irriverenza, o il suo agito, la sua follia, o la sua ferma determinazione, la vicenda di Jean-Jacques Abrhams mette in luce un aspetto fondamentale, ma decisamente scomodo, di ciascuna relazione di cura: ovvero che, riprendendo il commento alla vicenda di Sartre (a cui è stata spedita la sbobinatura dell’incontro, pubblicata contro il parere del gotha psicanalitico), “la relazione analitica è di per se stessa violenta, qualunque sia la coppia medico-paziente che consideriamo”.

Ma attenzione: il senso profondo del testo di Abrhams e la sua attualità, come suggerito da questo commento, non vanno cercati in una critica malevola, aprioristica, e indirizzata a qualche specificità tipicamente psicanalitica quanto in una descrizione e analisi, del tutto disinteressati, dei processi di subordinazione che ogni relazione di cura tecnicamente disciplinata, necessariamente, impone per poter funzionare e riprodursi.

Non c’è, né può esserci, reale reciprocità all’interno di una relazione mediata dalla tecnica, in cui i ruoli impongono un’asimmetria irriducibile di potere e sapere in cui è solo il terapeuta, privilegiato, a poter sicuramente giovare del “beneficio della situazione ambientale” e che spesso trasforma tale beneficio in un beneficio anche per la persona che gli si rivolge. Ma nel momento in cui il paziente esce dal ruolo che gli viene imposto, qualcosa si rompe, forse perché qualcosa ha funzionato, seppur fondato su elementi di dominio, simbolico quanto reale.

Dare voce a tale realtà significa gettare una luce su uno di quegli impliciti che danno forma alla relazione di cura, la cui messa in discussione può risultare insopportabile da parte di chi, come i clinici e il dottor Nypesleer, ha e continua incessantemente ad esercitare il potere di definire cosa sia il reale e cosa no, e di questo viva.

Il testo ci è piaciuto così tanto che lo abbiamo messo in scena, con una prima lettura, insieme alla compagnia teatrale il Cerchio di Gesso. Qui sotto potete trovare un breve stralcio.




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