The Care Collective, 2021, Edizioni Alegre

(ed. originale: The Care Manifesto, Verso, 2020).

Cosa vuol dire riorganizzare la società intorno al principio della ‘cura universale’? Perché ripensare la cura vuol dire necessariamente abbracciare una prospettiva eco-sociale, femminista, queer e antirazzista? In che modo la pandemia può aver indicato una strada da percorrere?

Il collettivo britannico Care Collective ci offre un manifesto che costituisce una controproposta radicale, partecipativa e quanto mai necessaria all’evidente fallimento del modello imperante neoliberista che scambia il processo della cura con la logica del profitto, alimentando disuguaglianze e discriminazioni. La pandemia ha solo smascherato un sistema fallace sempre più orientato a intendere la salute come un fatto privato, individuale, sostituendo silenziosamente il “welfare” con il “self-care”.

La mercificazione della sanità ha solo alimentato forme di incuria, basta considerare che ad ogni latitudine le principali vittime del covid sono state poveri, migranti e non bianchi. In Italia la regione più celebre per l’eccellenza della sanità privata si è ritrovata a collassare su sé stessa di fronte all’emergenza pandemica, mostrando la necessità che sia il pubblico ad occuparsi di cura.

Ma non solo. 

Diventa necessario ridurre l’isolamento e coltivare forme di cura promiscua, ovvero indiscriminata, che mettano in connessione persone di estrazione differente, valicando i confini a volte troppo stringenti della famiglia come unico sistema incaricato del prendersi cura.

Questo significa addentrarsi senza fingimenti nelle ambivalenze dei significati che permeano le relazioni di cura, essendo consapevoli delle dinamiche di potere e delle rappresentazioni implicite che le accompagnano. L’accesso al mondo del lavoro ha solo illusoriamente decostruito l’associazione tra la donna e i ruoli di cura, il mutamento di status ha semplicemente spostato il problema delegando badanti, colf, baby-sitter all’occupazione domestica e familiare, per la stragrande maggioranza (77%) ancora una volta donne ma questa volta straniere.

Ecco perché una cura davvero universale impone un “egualitarismo radicale”, chiedendo quindi di essere femministi e antirazzisti, senza confini che delimitino il diritto alla cura, lontani da un’appartenenza basata sull’esclusione. Affinché possano esservi forme di cura promiscua è necessario che vi siano spazi pubblici accessibili per coltivare forme di mutuo soccorso e scambio di beni materiali quanto immateriali. Questo vuol dire favorire buone pratiche di partecipazione democratica, questo vuol dire fare comunità.

Per iniziare questo mutamento di paradigma basta rivolgere lo sguardo al pianeta e ingaggiarsi in una cooperazione transnazionale che ci veda tutte e tutti ugualmente coinvolti. La battaglia ecologica è una battaglia sociale, occuparsi del pianeta è un passaggio cruciale per intervenire sulla distribuzione egualitaria delle risorse, per arginare crisi sociali alimentate dalla crisi climatica, per riorganizzare politiche del lavoro e finanziarie capaci di esaltare la nostra indissolubile, reciproca, interdipendenza.

La cura è la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive affinché la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso”.

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