In un recente articolo uscito sulla rubrica “Giù dal lettino” sul Sole 24 ore a cura di Vittorio
Lingiardi, egli commenta, accogliendola con entusiasmo, una lettera pubblicata su una delle più
autorevoli riviste scientifiche, il Lancet, titolata “Psychoanalysis in mass non-adherence to medical
advice”.


Gli autori della lettera lanciano un appello affinché la psicanalisi possa essere utilizzata laddove
l’incapacità politica di Trump ha dimostrato il proprio fallimento nella gestione dell’epidemia di
Coronavirus, in particolare rispetto a uno dei principali fenomeni sociali che, all’interno e
trasversalmente a molti paesi Occidentali, desta non poche preoccupazioni per la salute e l’ordine
pubblico in governi e cittadini: il cosiddetto “negazionismo”.
Ben prima del manifestarsi del negazionismo, saperi e pratiche di ogni tempo e luogo hanno corso il perenne il rischio di essere assoggettati o assoggettarsi all’ideologia dominante, oggi, come ricorda tra tanti Agamben, rappresentata dalla scienza o, più accuratamente, dalla sua deriva scientista.

Non è nuovo che le pratiche di cura possano essere messe al servizio del mantenimento di ordine e
controllo sociale e che gli intellettuali, come ricorda Basaglia, possano giocare un fondamentale
ruolo culturale in questo processo. Tale rischio, evidente alla luce della storia della psichiatria, concerne oggi in egual misura seppur più sottilmente la psicanalisi e le psicoterapie. Lingiardi sembra caldeggiare questa strada proponendo un utilizzo di una psicanalisi che viene definita “anti-negazionista”, una psicanalisi che possa curare, nel corpo sociale, gli effetti causati dalla scelleratezza e incompetenza politica di Trump o, ancor peggio, fornire un rimedio nostrano all’ondata di quel fenomeno che, lungi dall’essere compreso, viene liquidato come “negazionista”.
Ecco che la psicoanalisi disvela la sua natura propriamente politica attraverso ciò che Lingiardi
definisce “il potenziale trasformativo che la psicoanalisi può esprimere non solo come terapia
individuale, ma come forza di cambiamento sociale”: in questo caso, favorire l’adesione (forse
acritica) ai consigli medici.


Nessun accenno alle disuguaglianze sociali o alle condizioni di precarietà e miseria materiale,
sociale ed esistenziale su cui il “negazionismo” trova il proprio terreno fertile, a problemi legat
all’istruzione, ad alcuna misura esplicitamente politica, nessuna riflessione sulla capacità di dialogo
della comunità scientifica con la comunità civile.
L’obiettivo della psicanalisi sembra diventare, amplificando la polarizzazione che caratterizza questi tempi, correggere i comportamenti devianti migliorando “l’adesione ai consigli medici”, curare l’eresia della nuova fede scientista. Non può che saltare all’occhio il termine “disciplina” con cui Lingiardi si riferisce alla psicanalisi che, all’interno di un “dialogo” e una “relazione” che qualcuno definirebbe ortopedici, non mirerebbe, in fin dei conti, che a disciplinare il corpo sociale.

Chissà quanto la formazione in psichiatria non abbia contribuito a questa urgenza di promuovere
un’”adesione ai consigli medici” spesso disattesi dai moltissimi pazienti “poco complianti”?


Ma oltre a questa forse banale realtà su cui tutti, in quanto cittadini, siamo chiamati a riflettere ciò
che stupisce è un errore epistemologico che non ci sembra all’altezza della fama dello stimato
intellettuale: si tratta della sovrapposizione tra il fenomeno del “negazionismo” e quello del
“diniego”
. Lingiardi sembra implicitamente suggerire e presupporre che la psicanalisi possa
esprimersi come “forza di cambiamento sociale” in contrasto al “negazionismo”, agendo su larga
scala attraverso il trattamento del “diniego”.

La fallacia epistemologica del discorso, ereditata in parte dalla lettera al Lancet, può essere compresa a pieno mettendo tra parentesi l’oggetto verso cui il soggetto, individuale o collettivo, starebbe agendo diniego o potrebbe essere definito negazionista. I due concetti si riferiscono a campi differenti: “Negazionismo” è un’etichetta utilizzata per descrivere un fenomeno sociale; “Diniego” è un’etichetta utilizzata per descrivere un fenomeno intrapsichico. Nel medesimo errore sembra essere caduta, qualche giorno fa, durante il programma di Di Martedì la biologa Barbara Gallavotti: il “negazionismo” potrebbe essere spiegato attraverso un malfunzionamento di alcune aree del cervello, in particolare quelle deputate all’elaborazione del “pensiero razionale” simile al malfunzionamento che colpisce chi soffre di demenza. Non più fenomeni mentali ma biologici, seppur sempre individuali. Certamente i due livelli interagiscono, ma si è destinati a sicuro fallimento analizzando o cercando di trasformare un fenomeno sociale ricorrendo a strumenti concettuali e operativi che si riferiscono al livello individuale e viceversa.

Il “negazionismo” non può essere ridotto ad un diniego generalizzato nelle menti isolate degli
individui, né il motivo per cui un soggetto può essere detto negazionista si esaurisce nel sudiniego. L’equivalenza tra “diniego” e “negazionismo” costituisce una semplificazione e distorsione
della realtà ed in particolare tutti quegli aspetti che possono essere conosciuti e trasformati solo ed
esclusivamente attraverso categorie e azioni non individuali ma collettive.


Certamente qualche amante dell’intrapsichico potrebbe affermare che, a livello individuale, una
persona che aderisce al negazionismo o si riconosce in quel movimento altro non fa se non ritrovare in esso una giustificazione e un rinforzo di una propria tendenza di base al diniego di una realtà difficile da tollerare. A questo amante dell’intrapsichico rispondiamo che una spiegazione del genere, a livello teorico, potrebbe essere valida e utile solo ed esclusivamente per quello specifico individuo indipendentemente dal fatto che possa essere definito negazionista o il suo contrario. Per quello specifico individuo (e non per “un individuo generico”) il diniego può giocare un ruolo ma, pur rimanendo all’interno della dimensione individuale, ridurre per quella singola persona la spiegazione del suo essere “negazionista” (ammesso che egli si riconosca in tale etichetta) ad un meccanismo intrapsichico non è efficace né appropriato.

Piuttosto, si potrebbe ipotizzare a monte una tendenza collettiva a una cultura che nega la malattia e la morte, che caratterizza il nostro corpo sociale nel suo complesso; ma tale ipotesi rimane da verificare sia nella sua veridicità che nella sua importanza per il fenomeno in questione.

In mancanza di prove, suggerire la presenza di una quota maggiore di “dinieganti” tra i “negazionisti” piuttosto che tra i loro oppositori, non può che legittimare quel coro di voci che
additano psicanalisi e psicoterapia per la povertà delle loro basi scientifiche oltre che ostacolare il
cammino verso una corretta comprensione del “negazionismo”, alla convivenza con il quale siamo
tutti forzati. Dispositivi teorici e pratici validi per fenomeni individuali possono essere inservibili per fenomeni sociali anche se, per chi si occupa delle cura degli individui, è possibile che essi rappresentino i più disponibili, ancor più all’interno di una cultura in cui l’individualità rappresenta la causa prima e il fine ultimo.

Da parte nostra, crediamo invece che una risposta al fenomeno del “negazionismo” debba passare
attraverso una comprensione delle variegate dinamiche collettive che esso esprime e dei bisogni
sociali di cui esso si fa portatore, seppure in una forma talvolta controintuitiva e potenzialmente
dannosa. La svalutazione intellettuale o la normalizzazione medica di quello che rappresenta a tutti gli effetti un fenomeno popolare, al contrario, non possono che alimentare la forza dei populismi e di certe destre dalle tendenze autoritarie che da anni si nutrono del malcontento di una popolazione da troppo tempo guardata dall’alto in basso da quello che, una volta, era il mondo progressista.

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1 Comment on “Professor Lingiardi, le spieghiamo perché, per noi, non ha ragione: la psicoanalisi non può curare il negazionismo.

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