Dalla graphic novel “La differenza invisibile”[1] al paradigma sociale di Judy Singer[2]: un dialogo sull’autismo nella cornice della neurodiversità con “Neuropeculiar APS, movimento per la biodiversità neurologica[3] 

Quale parola ti è venuta in mente leggendo il messaggio di invito all’autoformazione: “Dal movimento per la neurodiversità al movimento Neuropeculiar: verso un cambiamento di paradigma biopsicosociale?”? A che punto siamo, noi clinici, psicologi e psicoterapeuti, con le conoscenze all’interno del panorama della condizione autistica o di altre neurodivergenze? Siamo al passo con i tempi? Come ci sentiamo? Quali idee, istanze, pratiche circolano fra le varie figure professionali che hanno a che fare con persone con funzionamenti neurocognitivi divergenti dalla “norma”? Cosa succede e succederà nella società? 

Queste alcune delle prime domande-guida che hanno aperto il nostro confronto e dibattito, a partire dalla condivisione di alcune tavole tratte dalla graphic novel “La differenza invisibile” (Dachez & Mademoiselle, 2018) che racconta la storia di Marguerite e del suo percorso (solitario) di diagnosi di autismo. Tale scelta, combinata con la presenza di persone autistiche e attiviste, dell’APS Neuropeculiar, ha contribuito a focalizzare l’incontro in particolare sul funzionamento autistico. 

In questo breve articolo si tenterà di riassumere, attraverso una narrazione semi-dialogica, quello che è avvenuto durante l’incontro di autoformazione presso la sede di Associazione (TiAscolto APS[4]), vale a dire un confronto critico circa la neurodivergenza, il paradigma della neurovidersità, la diagnosi di funzionamento autistico e le implicazioni sociali, culturali e politiche del considerare l’autismo e altre neurodivergenze come tali e non come malattie da curare. 

Gli ospiti invitati presenti sono persone facenti parte di diverse realtà con le quali già collaboriamo (come Gruppo Blu[5], l’Associazione Orimaghi[6]) o di realtà del territorio che si occupano in particolare di disabilità e minori (Associazione di Idee[7]) e di neurodiversità (Neuropeculiar APS[3]) e con le quali ci sembrava essenziale confrontarci in quanto interlocutori eletti per la tematica. 

Il dibattito si è costruito a partire dalla condivisione delle slide allegate al presente articolo, con domande-stimolo che ci hanno fatto concentrare su alcuni macro-temi, molti solo accennati e che meriterebbero di essere ampliati, esplorati in maniera molto più approfondita: 

Perché è importante parlare di neurodiversità e perché è importante farlo qui… 

L’incontro nasce dall’esigenza di condividere con altre menti la sensazione di complessità che un tema come la/le neurodivergenza/e e la disabilità generano nella società, nelle persone e negli addetti ai lavori. Ci si muove in assetti educativi, sociali e politici modulati sullo stampo del paradigma biopsicosociale (Engel, 1980)[8], approccio alla persona nato come evoluzione del paradigma medico ma forse non meno medicalizzante, patologizzante, specialmente nell’area della salute mentale. Spesso, in ambito educativo e non solo, sentiamo ancora dire frasi come “la persona affetta da autismo”, “l’Asperger è un genio ma non ha abilità sociali”, “occorre migliorare le sue capacità comunicative”; esemplificativi della credenza che l’autismo sia un disturbo da curare e a cui rimediare, attraverso una convergenza verso modelli di normalità in cui gran parte della società si rispecchia, attraverso interventi sulla persona autistica e sulle sue (dis)abilità. Accade qualcosa di molto simile a chi abbia un funzionamento neurocognitivo caratterizzato, per esempio, da iperattività motoria e da un’attenzione che alcuni definiscono come “iperfocus”, che potrebbe ricevere una diagnosi di disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e sovente potrebbe sentirsi dire: “ma non riesci a stare un po’ fermo?”, “guardami negli occhi quando ti parlo”, “come fai a non capire una cosa così semplice?”. Cosa si sta chiedendo a questa persona? Probabilmente di usare un funzionamento che non le appartiene per adeguarsi alla “media”. 

Parliamo di modelli della disabilità; una tesi condivisa da molti dei partecipanti all’incontro è che questi siano un modo di creare disabilità e di mantenerla. 

È importante parlare di neurodiversità perché c’è ancora molta confusione e perché, come vediamo attraverso il modello del PTM (Johnstone, 2018)[9], il power threat meaning framework, è possibile demedicalizzare, decostruire gli stereotipi, dare dignità ai vari e molteplici funzionamenti. 

È rilevante perché con le persone che incontriamo si parla di questa confusione, perché sono sempre più pronte a parlarne e a mettere in dubbio di non essere strane o sbagliate ma di avere delle caratteristiche e un funzionamento specifico. 

La neurodiversità è un cappello ampio e il rischio che corriamo, se non ne discutiamo criticamente e attivamente, è di “inviare a specialisti” anche se noi siamo specialisti della salute e del benessere psicofisico o di non farlo affatto, cercando significati nascosti che eclissano invece funzionamenti specifici, e di perpetuare noi stessi stereotipi e pregiudizi. È vitale perché noi, a volte nostro malgrado, ci muoviamo in una cornice teorica che è ampiamente medica e medicalizzante e lavoriamo affinché la sofferenza si possa depatologizzare, si possa combattere lo stigma sulla salute mentale. Risulta perciò necessario conoscere accuratamente un modello sociale della disabilità che, in maniera analoga a quanto accade con il PTM[14], si sposa maggiormente con le nostre intenzioni e le nostre concezioni e pratiche di cura e salute.

Modelli medici vs Modelli sociali 

R.: <<Ecco, nel titolo di questa presentazione c’è un’inesattezza poiché si parla del cambiamento di un paradigma medico, quello biopsicosociale ma Neuropeculiar affonda le sue radici nel modello sociale della disabilità e nel concetto di neurodiversità[10] di J. Singer, un paradigma socio-culturale.>> 

L’inizio del nostro incontro ha preso, sin dalle prime battute, la forma di un dibattito; il titolo della presentazione si reggeva su un senso figurato, intriso dello scetticismo che un’ottica come quella proposta da Singer, sociologa australiana e autistica, possa “recidere”, in poco tempo (anche se ne si parla già da molti anni), un paradigma nato da un’evoluzione del modello medico della salute e della disabilità, il quale però è bene che accolga i cambiamenti – e quindi si rivoluzioni. La proposta velata ed implicita è dunque quella che si possa creare un compromesso affinché il paradigma dominante in materia di salute e benessere, quello biopsicosociale appunto, si modifichi, accogliendo le proposte e le evidenze derivanti da altri modelli, come il modello sociale della disabilità.  

Durante l’incontro, è stata messa in risalto una delle critiche che spesso viene avanzata al modello biopsicosociale, ossia la sua natura prettamente medica e il suo sbilanciamento verso la componente “bio” (Benning, 2015) [11]

R.: << abbiamo la necessità di superare il modello medico della disabilità a favore del modello sociale>> 

Nel corso del dibattito, alcuni dei partecipanti hanno sottolineato che nel modello medico la disabilità è connessa ai deficit di una persona, alle sue limitazioni fisiche o mentali, a cui dunque mancano dei requisiti per essere “normale”. La normalità è un parametro di riferimento attraverso il quale, in seguito ad un iter diagnostico, viene riconosciuto il diritto ad una cura. È dunque un parametro a servizio del potere, essendo il potere, in questo caso medico, che stabilisce la norma, le deviazioni da questa e le modalità per correggere tale deviazione.

Il modello sociale invece offrirebbe un punto di vista differente: è la società che costruisce e mantiene la disabilità, con stereotipi, pregiudizi e barriere che limitano od ostacolano persone con specifici funzionamenti neurocognitivi. Ad ogni modo, all’interno di ogni società, è inevitabile la presenza di una norma e quindi, il fatto che esistano persone il cui funzionamento e caratteristiche siano penalizzate, è esattamente il grado con cui la società riesce ad armonizzare tutte le differenze e a definirne la natura inclusiva e democratica. In tal senso, l’autismo non sarebbe una sindrome da curare ma un funzionamento che è bene diagnosticare affinché la società possa abbattere le barriere che ha da sempre (inconsapevolmente) istituito, nei confronti di chi possiede una sensorialità più intensa o delle modalità comunicative e di interazione sociale che spesso vengono definite deficitarie o inadeguate o ancora bizzarre.  

Alcuni partecipanti hanno pertanto sottolineato il proprio imbarazzo e la sensazione di ambivalenza nel continuare a promuovere una cultura della riabilitazione e della diagnosi così come è sempre stata fatta, altri hanno sottolineato invece l’importanza degli interventi laddove questi siano necessari – come nel caso di persone con ulteriori compromissioni associate <<non sono deficit e queste non sono correlate! Attenzione all’uso delle parole che scegliamo>>. Alcune persone autistiche possono presentare gravi compromissioni nell’area dell’interazione con il mondo esterno, nella comunicazione verbale e non verbale, avere un deficit dell’attenzione, o altre patologie neurocognitive o neurologiche (aspetti comunemente inseriti nel cluster del “basso funzionamento”). 

Sindrome, spettro, neurodivergenza… il potere delle parole (e delle immagini) 

G.: << Come possiamo notare, a colpo d’occhio, una tavola di una graphic novel di pochi anni fa voleva essere uno strumento psicoeducativo e “normalizzante” di una sindrome, quella di Asperger, oggi l’opera verrebbe criticata nel suo simbolismo, per le sue scelte terminologiche…>> 

“La differenza invisibile” (Dachez & Mademoiselle, 2018) parla di una ragazza Asperger. Nel 2013 la Sindrome di Asperger veniva però eliminata dal DSM-5 (Volkmar, Partland, 2014)[12] ed inclusa nel più ampio contenitore dei Disturbi dello spettro autistico (nei disturbi pervasivi del neurosviluppo). Questa scelta (medica) ha sancito un passaggio, almeno teorico, da una diagnosi categoriale ad una diagnosi dimensionale; alcuni dei presenti hanno osservato come tale movimento avrebbe potuto contribuire a depatologizzare molti dei funzionamenti neurocognitivi, inclusa la condizione autistica. Questa prospettiva è rimasta solo una teoria, nel DSM-5 si continua a parlare di “disturbi” (disturbi del neurosviluppo, disturbi dello spettro della schizofrenia, disturbo bipolare ecc.) e di “disturbo dello spettro autistico”, quindi a porre l’attenzione sul “disturbo”, sul “deficit” e non sul funzionamento, afferente alla neurodiversità umana, ossia della variabilità delle caratteristiche neurocognitive di tutta la popolazione . 

Potremmo dunque domandarci: che cos’ha Marguerite? Prima di tutto, molti dei partecipanti ci hanno tenuto a sottolineare che “No. Marguerite non ha l’Asperger, non ha l’autismo, Marguerite è autistica”. Si tratta di una posizione molto forte, che definisce l’essenza di Marguerite a partire da una diagnosi, un suo aspetto particolare.

La persona viene così cristallizzata, definita e limitata da tale definizione una volta per tutte. La persona è la diagnosi ricevuta. Inoltre questa posizione è esattamente l’opposto di quanto rivendicato per molti anni dalle persone con disabilità, ovvero il fatto di non essere la propria disabilità. In questa prospettiva, la disabilità non precede la persona, né tantomeno, la definisce.

Ad ogni modo, Marguerite ha sempre sentito l’esigenza di seguire delle routine, di evitare determinate stimolazioni/percezioni sensoriali e si è sempre sentita affaticata in situazioni sociali che prevedessero una pluralità di persone. Marguerite lavora, è autonoma, ha un fidanzato e vive con lui ma ha sempre faticato molto, anche nella ricerca di un aiuto professionale e di una risposta alle sue domande. Le hanno detto più volte che è troppo ansiosa, che è troppo strana, che è troppo. L’autrice della graphic novel, essa stessa autistica, seppur raccontando la storia attraverso una diagnosi ormai obsoleta, ovvero non in linea con gli attuali sistemi diagnostici (Volkmar, Partland, 2014)[12], racconta molti degli aspetti fondamentali dell’autismo, della condizione autistica senza compromissioni e con. Marguerite fa una separazione netta fra la sensazione di essere diversi e quella di essere pazzi. Si è sempre sentita pazza e sbagliata, affrontando diversi problemi, proprio come capita nella vita di tante persone autistiche che oggi ce lo possono raccontare. Questa è la strada maestra affinché si sciolgano alcuni degli stereotipi sull’autismo.  Questa lettura è un assaggio di ciò che molti attivisti – principalmente persone senza compromissioni linguistiche che possono raccontarsi e familiari di persone con compromissioni – stanno facendo negli ultimi anni. 

L.: <<Neurodivergenza non deve essere usato per sostituire parole specifiche, come persona autistica, giusto per passare il messaggio che si mastichi un po’ di neurodiversità>>. 

Addentrandoci in alcune delle tavole della graphic novel, alcuni dei partecipanti hanno voluto sottolineare dunque che occorre fare un uso molto sapiente delle parole. Parlare di Marguerite come Asperger sembrava paradossalmente fuori luogo e il tentativo di sostituire alla parola Asperger quella di persona neurodivergente è stata presto criticata, poiché è sufficiente usare la parola “autistica”. 

Cosa si intende dunque con neurodiversità? Come suggerisce Fabrizio Acanfora (2021) “neurodiversità è una di quelle parole belle, utili, è uno di quei concetti che ci aiutano ad allargare la nostra visuale sulla diversità che ci contraddistingue come specie[13]”. Verso la fine degli anni ’90 Judy Singer coniò il termine “neurodiversity”. Questo termine sarebbe l’equivalente neurologico della biodiversità, descrivendo dunque la “variabilità illimitata della cognizione umana e all’unicità di ogni mente umana (Singer, 2019)”. Come volevano sottolineare i membri di Neuropeculiar, sovente il concetto di neurodiversità è impropriamente riferito alle persone il cui sistema nervoso è organizzato diversamente rispetto alla maggioranza a sviluppo neurologico tipico, diventando sinonimo di autismo.  La neurodiversità invece, come possiamo sempre leggere dalle parole di Singer, comprende sia gli individui il cui sistema nervoso ha seguito uno sviluppo considerato tipico, sia le persone che vengono catalogate in base ad alcuni comportamenti particolari, frutto di differenze specifiche del neurosviluppo, come nel caso dell’autismo, della sindrome di Tourette, dell’ADHD (2019)”. 

In sintesi, tutte le persone sono un po’ neurodiverse, cosa che, forse, non conferisce molta pragmaticità al termine.

G.: <<…sì, poi nel nostro nome “Gruppo Blu”, c’è proprio il colore blu, che non vi piace tanto>> 

Non solo le parole sono potenti ma anche le immagini. Abbiamo riflettuto brevemente sul simbolismo del pezzo di puzzle, utilizzato ancora oggi per identificare l’autismo, insieme al colore blu, che però fanno pensare a qualcosa che manca e al colore della tristezza. Si preferisce utilizzare il simbolo dell’infinito e i colori dell’arcobaleno, che nell’insieme rimanda al concetto di infinita variabilità e di spettro. 

Parlando quindi di parole e di potere, due partecipanti hanno nuovamente messo in risalto come una valida alternativa possa essere quella proposta dal PTM, che fornisce la possibilità di creare un nuovo lessico meno stigmatizzante e più comprensibile, aprire la via a una comprensione del disagio psichico che metta in risalto i determinante sociali, culturali ed economici della sofferenza, portandoli allo stesso livello d’importanza di quelli biologici e individuali; chiedere il parere di chi ogni giorno lotta per non stare male, un modello clinico e teorico che ci sta a cuore, alternativo al modello medico e psichiatrico[14]

Il lavoro come clinici e il valore della diagnosi 

G.: <<Cosa vi capita quando una persona, nel vostro studio, vi dice “mi sono autodiagnosticato l’ADHD” oppure “penso di essere autistico” e si narra come una persona sbagliata, incompetente, da cambiare?>> 

Quella di Marguerite è una esperienza sempre più comune fra i giovani adulti o gli adulti, la ricerca di risposte a dubbi antichi quanto la propria vita si scontra spesso con la difficoltà nel trovare una risposta coerente e sufficientemente sintonizzata con quanto sentono, provano, pensano e su come lo sentono, provano e pensano. Lo psicologo le dirà: “perché ha questo bisogno di costringersi in una categoria?” e il suo medico di base esordirà con “l’autismo è una moda”. Entrambe hanno, in parte, ragione: le categorie diagnostiche, spesso, a livello individuale, possono rappresentare più gabbie che strumenti e, a livello sociale, ogni categoria diagnostica, ciascuna dotata di maggior attendibilità e  validità, è un prodotto storico; in diversi periodi storici, diverse etichette sono più o meno diffuse, in maniera spesso poco correlata a ciò che vorrebbero catturare. Anche le etichette diagnostiche, come ben sottolinea Allen Frances (2013)[15] , a capo della task force del DSM IV, procedono per mode. Come gruppo, inoltre, ci siamo posti il quesito e abbiamo notato come alcuni autori facciano coincidere l’aumento delle diagnosi con l’uso crescente, a scopo diagnostico, di questionari o test psicologici strutturati in prove (si rinvia al dibattito al fondo su questo punto). Inoltre, il mercato delle diagnosi cambia nel tempo e i professionisti specializzati in specifiche diagnosi hanno tutto l’interesse affinché determinate diagnosi proliferino e cresca la consapevolezza sociale di determinate diagnosi.  

A fronte di questa evidenza quantitativa, abbiamo anche riflettuto sulla paradossalità dell’aumento di diagnosi e sulla parallela scomparsa della diagnosi di Asperger, a partire dal 2013. Per quanto possa sembrare un fatto relegato puramente alla nomenclatura, può assumere connotati più complessi. È quasi spontaneo, per esempio, chiedersi come si sentano tutte quelle persone che, anni fa, hanno ricevuto diagnosi di Asperger, dopo l’uscita della categoria dal manuale diagnostico DSM-5. Abbiamo riflettuto sul senso identitario di persone che faticosamente iniziavano a riconoscersi in una categoria; per quanto patologizzante, sembrava e, tutt’ora sembra dare respiro e conforto ad alcune persone – si pensi al proliferare delle comunità Aspie in tutto il mondo.  

La diagnosi ha un valore ampio e articolato e può passare dall’essere sentita come una categoria stringente nonché medicalizzante e patologizzante, ad una chiave di accesso a diritti, consapevolezza, pace e rivendicazione collettiva, basti vedere il caso delle associazioni di persone con diagnosi di AIDS a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. Tuttavia diagnosi diverse significano cose diverse; ad esempio, il dibattito scientifico rispetto all’attendibilità delle diagnosi di ADHD, ancor più negli adulti, è aperto e florido, mentre la diagnosi di AIDS è tutt’altro che dibattuta. 

Il panorama nel quale ci troviamo è infatti complesso, strettamente connesso a potere e politica, a ragioni socio-economiche e di (self)advocacy. Ogni diagnosi, infatti, comporta numerosissimi benefici per chi viene diagnosticato, o per la sua famiglia.

M.: <<mi sta a cuore capire come sia più adeguato comportarsi nella comunicazione di diagnosi e soprattutto comprendere il ruolo delle parole “mediche” e delle “etichette”, muovendosi in un modello sociale>> 

I membri di Neuropeculiar hanno condiviso il loro punto di vista personale, di sensatezza, nella loro vita, dell’arrivo della diagnosi e dell’adeguatezza, per loro, di una categoria esaustiva che non riduce le loro caratteristiche individuali ma che dà spiegazioni e dignità a un funzionamento neurocognitivo. 

G.:<<quindi c’è un noi e voi?>> 

R.:<<come in tutte le cose, e nella separazione tra “tipici” e “autistici” c’è sempre stata una mancanza di coordinazione data da un “dominio” dei costrutti neurotipici…>> 

G.: <<e allora, sì alle etichette?>> 

R.: <<le etichette vanno bene poiché forniscono qualche strumento in più laddove si debba proporre un intervento verso una persona autistica o quando si analizzano le modalità di relazione e comunicazione>> 

Inclusione? 

G.: <<nelle scuole dell’infanzia italiane e in altri ordini e gradi, qualsiasi progetto educativo si fonda sul modello dell’inclusione scolastica, su carta nobile e attento alle specificità delle persone, poiché presuppone che l’elemento da includere venga accolto per ciò che è. Ma è proprio questo “dover essere incluso” in un gruppo, precostituito e che rappresenta “la norma”, che ultimamente viene criticato…>> 

Abbiamo concluso il nostro incontro purtroppo solo accennando al tema dell’inclusione, scolastica e nel mondo lavorativo, consapevoli che si tratti di uno di quegli assi dove il potere si agisce e viene vissuto. 

Abbiamo osservato insieme una illustrazione di Tiziana Naimo[16], membro dell’APS Neuropeculiar; l’immagine[17] è stata definita come angosciante da alcuni dei partecipanti, ed è la sensazione che forse voleva essere trasmessa, che probabilmente viene vissuta da chi, più che incluso, si sente accerchiato. Sul suo blog, Tiziana Naimo dice: “[…] ha molto senso interrogarsi sul reale significato di inclusione, che è spesso vista come qualcosa fatta secondo le regole della maggioranza. Mi includi alle tue condizioni che potrebbero non rispondere per nulla a quelle che sono le mie esigenze e bisogni e se lo faccio notare sono un’ingrata che non apprezza quanto di buono viene fatto per me. Che non comprende, quanto siano stati buoni a prendersi la briga di decidere quello che è meglio per me e a concedermelo. Ma non dovrebbe essere una concessione, sono dei diritti sacrosanti per tutti quanti gli esseri umani. Dovrebbe essere un processo che interpella i soggetti che si trovano a vivere la condizione di disabilità (famiglie comprese), altrimenti è qualcosa che viene fatta secondo regole che valgono per altri e che non tengono in nessuna considerazione i reali bisogni delle persone a cui dovrebbe rivolgersi. Non include per davvero e rischia pure di essere controproducente. […] Altrimenti non chiamiamola inclusione ma ACCERCHIAMENTO, in cui tutti sanno quello che va bene per te e tu devi adattarti, semplicemente prenderne atto e fartelo andar bene.” 

Una lettura altrettanto ricca proposta è stata quella del già citato Fabrizio Acanfora[18] che ribalta l’idea di inclusione, promuovendone il suo superamento attraverso il concetto di convivenza delle differenze

Una domanda che rimanere aperta e per la quale sarebbe auspicabile proseguire il confronto con le diverse realtà, attiviste e non, è come possiamo incorporare quanto emerso nel corso dell’autoformazione nelle pratiche dello Sportello, compatibilmente con i diversi punti di vista individuali di ciascun clinico. 

Il nucleo della nostra autoformazione ruotava intorno a un obiettivo che tuttavia sentiamo di aver raggiunto: avviare una riflessione critica ed aprire un dibattito sugli aspetti sociali e clinici di alcune diagnosi, delle conseguenze e dell’impatto nella vita di ognuno e della possibile rivoluzione che gli ambiti educativi, sociali e politici potrebbero (o meglio dovrebbero) affrontare, nel tentativo di aumentare la nostra consapevolezza, come operatori della salute e del benessere mentale, e di promuovere cambiamento. 

In conclusione, questo dialogo getta le basi per un processo di integrazione che riteniamo debba e possa avvenire fra realtà ed ambiti che si discostano da quelli più prettamente clinici, affinché si promuova una apertura e una maggiore permeabilità dei confini fra quello che avviene nella stanza di terapia e ciò che le persone vivono nel e attraverso il mondo. Nel caso specifico, abbiamo affrontato il tema della neurodiversità e le nostre riflessioni, influenzate anche dalla nostra formazione clinica, si posizionano in un ampio dibattito sociale (attuale), nell’intersezione tra le norme e le aspettative della società e il movimento per la rivendicazione di diritti, di benessere e di cura. 

Questo articolo è stato redatto e dapprima approvato da tutti gli attori coinvolti. Dopo l’aggiunta di qualche passaggio, in fase di revisione collettiva, da parte dei membri dello Sportello Ti Ascolto, alcuni degli estensori del contributo non si riconoscono più in esso. Abbiamo dato piena disponibilità, nell’ottica del rispetto di tutti i punti di vista e contributo, ad ospitare, sul nostro sito, una risposta a questo contributo.


Note nel testo e riferimenti bibliografici:  

[1] Dachez, J., & Mademoiselle, C. (2018). La differenza invisibile. Edizioni LSWR. 

[2] [10] Singer, J. (2019). Reflections on the neurodiversity paradigm: What is neurodiversity? https://neurodiversity2.blogspot.com/p/what.html?m=1&fbclid=IwAR0WcAs9DopM8HMfKHD8RCNfXbXUTBFopCAz3rVkhxHsnMYXOQDYgLusFDI 

[Contributo tradotto in italiano: https://neuropeculiar.com/2020/03/14/che-cose-la-neurodiversita/ ]

[3] https://neuropeculiar.com/ 

[4] https://sportellotiascolto.it/chi-siamo/ 

[5] https://www.facebook.com/Gruppo-BLU-103862168046812/ 

[6] https://www.facebook.com/orimaghi 

[7] https://www.facebook.com/lassociazionedideeonlus/ 

[8] Engel, GL. The clinical application of the biopsychosocial model. Am J Psychiatry. 1980. May;137(5):535-44. doi: 10.1176/ajp.137.5.535. PMID: 7369396.

[9] Johnstone, L. & Boyle, et al. (2018). The Power Threat Meaning Framework: Overview. Leicester: British Psychological Society.

[11] “Benning TB. Limitations of the biopsychosocial model in psychiatry. Adv Med Educ Pract. 2015 May 2;6:347-52. doi: 10.2147/AMEP.S82937. PMID: 25999775; PMCID: PMC4427076.”

[12] Volkmar, F. R., & Mc Partland, J. C. (2014). La diagnosi di autismo da Kanner al DSM-5. Edizioni Centro Studi Erickson. 

[13] Acanfora, F. (2021). Neurodiversità o neurodivergenza? https://www.fabrizioacanfora.eu/neurodiversita-neurodivergenza/

[14]  PTM: oltre la diagnosi psichiatrica. Il ruolo del potere nel disagio psichico. https://sportellotiascolto.it/2018/07/23/potere-power-threat-meaning-framework-disuguaglianze/

[15] Frances, A. J. (2013). Primo non curare chi è normale, contro l’invenzione delle malattie. Bollati Boringhieri.

[16] Bradipi in Antartide. Blog di Tiziana Naimo. https://www.bradipiinantartide.com/?fbclid=IwAR35qQT8N_je9KeAP4QG_GQzW0jer8_Or2ZtoME7AEUV 

[17] immagine Inclusione – Bradipi in Antartide – di Tiziana Naimo.

[18] F. Acanfora (2020). La diversità è negli occhi di chi guarda. Superare il concetto di inclusione 

della diversità sul lavoro. [E-book] https://www.fabrizioacanfora.eu 

1 Comment on “Dialogo intorno alla neurodiversità

  1. Come prima cosa segnalo una grave imprecisione, anzi, un errore formale. Quando scrivete “In sintesi, tutte le persone sono un po’ neurodiverse” quel “po’” non ha nessun senso. Tutte le persone afferiscono alla Neurodiversità (così come tutte le forme di vita afferiscono alla biodiversità” e quindi, con una forzatura, possiamo dire che “tutte le persone sono neurodiverse”, anche se ha poco senso dal punto di vista logico, sarebbe come dire che tutte le forme di vita sono biodiverse.

    Nel passaggio “È importante parlare di neurodiversità perché c’è ancora molta confusione e perché, come vediamo attraverso il modello del PTM (Johnstone, 2018)[9], il power threat meaning framework, è possibile demedicalizzare, decostruire gli stereotipi, dare dignità ai vari e molteplici funzionamenti.” fate un’associazione forzata e strumentale. Il paradigma della neurodiversità si estende in ambito socioculturale, il PTM è comunque di ambito medico e non si pone come strumento per demedicalizzare, abbattere stereotipi etc ma sono come uno strumento diagnostico e interpretativo alternativo al DSM.

    Quanto all’articolo nel suo complesso, come già anticipato, Neuropeculiar prende le distanze. Crediamo che l’articolo non faccia emergere i concetti in maniera chiara e con la dovuta forza e che venga data poca importanza alle istanze socioculturali e depotenzia il paradigma della neurodiversità.

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