“Non parlate.

Si dicono sciocchezze,

che il nonno è venuto,

con un mucchio di giocattoli.

Il nonno non c’è.

Il nonno è in fabbrica.

In fabbrica?

Si, in quella che fa polvere da sparo.”

[V.Majakovskij, Conifere]

Premessa:

Siamo ai primi di agosto, numerosi cittadini e cittadine ricevono l’sms in cui viene loro comunicata la sospensione del Reddito di Cittadinanza: “Domanda di RDC sospesa come previsto dall’art.3 del DL 48/2023. In attesa eventuale presa in carico da parte dei servizi sociali”, recita il testo del messaggio. Peccato che i telefoni degli uffici squillino a vuoto e quando si riesce per pura casualità a trovare qualcuno all’altro capo del telefono, la risposta è più o meno sempre la stessa: la collega è in ferie. Tempismo perfetto per sospenderlo. Non sembra proprio una coincidenza.

Il Reddito di Cittadinanza presentava senza dubbio punti di forza e criticità; il focus di questo articolo non è su tale misura politica ed economica, ma molte delle persone seguite in questi anni nel progetto su cui si basano le riflessioni che faremo oggi, hanno avuto accesso a questo tipo di sostegno e nei giorni in cui iniziamo a buttare giù le prime righe di questo articolo riceviamo le loro telefonate: la frustrazione è tanta. Di queste persone, che sono arrabbiate e preoccupate, nostra, che sentiamo di nuotare insieme a loro, controcorrente.


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Alcuni anni fa pubblicammo un articolo in cui, in riferimento ad alcune teorie sviluppate da L. Cancrini,  davamo voce all’ipotesi di una trasmissione intergenerazionale della sofferenza e del sintomo non in termini genetici, ma relazionali e familiari (Cancrini 2012). Le nostre riflessioni andavano in una direzione di riconoscimento dell’importanza di lavorare in ottica contestuale: se è l’ambiente familiare con la propria storia a determinare il livello di benessere dell’individuo, intervenire nel sistema può interrompere una catena di sofferenza. Nelle conclusioni invitavamo a riflettere su quanto fosse importante agire in termini preventivi, come dire: la meta è l’origine. Se si lavora aiutando non solo i bambini e le bambine, ma ancora prima i genitori, in un’ottica non giudicante ma accogliente e collaborativa, possiamo prevenire possibili situazioni patologiche in età adulta.

Nel corso di questi anni abbiamo provato ad ampliare il campo di osservazione, integrando questa prospettiva e inserendola in una cornice piú estesa, alla luce dei determinanti sociali della salute mentale (OMS 2014).  

L’ipotesi alla base del lavoro “sul campo” che stiamo portando avanti, si fonda sull’idea che se la sofferenza è nel contesto e l’individuo se ne fa portavoce, a determinare il benessere e il malessere di una persona non è solo il sistema familiare, in quanto questo è a sua volta contenuto in un sistema più ampio, quello sociale e culturale.

Da questa premessa nasce la nostra psicoterapia urbana, un’azione di cura e ascolto terapeutico fuori dalla stanza di terapia.

Molto spesso le persone che hanno più bisogno di essere sostenute e accompagnate in momenti critici della propria vita non hanno accesso a percorsi di sostegno e cura; per motivi prima di tutto economici, ma anche strutturali, legati al modo in cui è pensata ed esercitata la professione psicologica. Nonostante venga professata l’appartenenza di  questa categoria all’insieme dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza) infatti, il Sistema Sanitario Nazionale raramente è in grado di fornire accesso e continuità a percorsi di sostegno psicologico e psicoterapia per persone che ad esso si rivolgono. Così la cura psicologica viene confinata in gran parte al privato e assume i caratteri di un salotto borghese, non a tutti accessibile. Per alcune persone questo è un lusso non pensabile, ma il paradosso è che proprio quelle persone dovrebbero averne più diritto.

Questa riflessione è cio che ha contribuito non solo alla fondazione di Sportello TiAscolto, ma è anche ciò che ci ha spinto in questi ultimi anni ad uscire dalle nostre stanze di terapia, mettere in discussione il setting tradizionale e sperimentare una psicoterapia urbana. Nello sviluppo e continuità di questa particolare pratica clinica è stato e continua ad essere fondamentale il nostro coinvolgimento da parte di Arci Torino all’interno di un progetto in rete con diverse realtà del territorio rivolto alle fasce più fragili della popolazione, che ha lo scopo di migliorare i livelli di benessere di nuclei familiari e individui in difficoltà .

Aiutare le persone e le famiglie significa prima di tutto metterle nella condizione di poter accedere a  risorse e strumenti; l’aiuto psicologico in assenza di altri interventi, in situazioni come quelle che abbiamo incontrato, è una goccia in un oceano di difficoltà. E’ importante per noi sottolineare questo punto perché a volte si corre il rischio, specie nella nostra professione, di definire la realtà solo in termini psicologici, con un livello di astrazione che sradica dal mondo concreto e che rischia di far cadere nella retorica del “volere è potere”.

La salute di un popolo, dipende in forma considerevole dal modo in cui le azioni politiche condizionano l’ambiente e creano quelle circostanze che favoriscono la possibilità di creare legami sicuri e relazioni protettive, lo sviluppo della fiducia in sé stessi e negli altri,  della dignità e  dell’autonomia (Illich 2013). Ciò significa che i maggiori livelli di benessere vengono riscontrati in ambienti in cui il contesto si impegna nel generare condizioni che permettano di far fronte alla vita in modo autonomo. L’assistenzialismo non è un punto di arrivo, ma la dimostrazione del fallimento di un sistema culturale, economico e politico che non è andato nella direzione di creare un’ uguaglianza sociopolitica.

Le disuguaglianze sociali hanno avuto e continuano ad avere delle evidenti conseguenze negative sulla salute. Interrompere questo meccanismo presuppone un’azione su più livelli, prima di tutto politici ed economici, perché non c’è salute e benessere senza diritti.

Dalla posizione sociale che la persona ricopre, dipende non solo il grado di controllo che questa sente di avere sulla propria vita, ma anche e soprattutto la probabilità di essere esposto a fattori di rischio legati a salute fisica e mentale. Pensiamo ad esempio all’ambiente in cui le persone risiedono, le città, le periferie, le abitazioni. E guardando più da vicino, pensiamo a quanto può essere più difficile accedere alle cure appropriate quando si vive in una condizione di svantaggio socioeconomico. Vivere in contesti insalubri significa anche adottare stili di vita insalubri: alimentazione, fumo, alcol, inattività fisica ecc. In sintesi: la posizione sociale influenza la salute, ed essere in una posizione svantaggiata aumenta il rischio di esposizione a fattori negativi; inoltre, se si occupa una posizione  di svantaggio è più probabile che non si disponga degli strumenti per far fronte o prevenire eventuali esperienze sfavorevoli (DoRS 2017). 

Immaginate una valanga e pensatela dietro di voi. Ora iniziate a correre.

È davvero bizzarro supporre che persone che si trovano in tale condizione abbiano il tempo di fermarsi e interrogarsi sulla propria condizione psicologica, surreale aspettarsi che suonino alla porta del nostro studio e che abbiano risorse economiche per poter sostenere un percorso. Perciò abbiamo pensato di cambiare le regole del gioco e contribuire a creare luoghi di cura in contesti urbani deprivati; perchè l’inclusione degli esclusi non consiste nell’apprendimento delle regole degli inclusi da parte degli esclusi, ma in un mutamento delle regole stesse.

Secondo Saraceno i problemi di salute mentale e generale, saranno sempre più problemi di salute e sofferenza urbana (Saraceno 2018). L’autore, a partire da questa considerazione, teorizza un paradigma secondo cui le sofferenze sarebbero intrecciate tra di loro nella vita di un individuo e allo stesso tempo intersecate tra loro nella comunità, quindi di fatto si tratterebbe di sofferenze meta individuali; purtroppo nonostante ciò, le risposte del sistema sociale sono quasi sempre frammentate e frammentanti. Ciò significa che nonostante viviamo in un tessuto urbano in cui tutto è collegato in modo circolare e in cui ognuno è legato all’altro per similitudini ed esperienze, le persone si percepiscono paradossalmente sole e isolate, proprio perché questa è l’immagine che la società riflette e rimanda agli individui, rispondendo a bisogni collettivi con azioni singole e disconnesse.

Aiutare le persone nel loro territorio vuol dire per noi provare ad accorciare le distanze, non colludere con questa tendenza alla disgregazione. Essere nei luoghi significa conoscere i luoghi per poterli comprendere maggiormente. Inoltre questo ci permette di essere più vicini alle persone che li abitano e quindi più accessibili, ma anche più vicini a servizi e Istituzioni che le persone frequentano e a cui si rivolgono: associazioni, servizi sociali, scuola. È molto importante per noi costruire alleanze dentro e con le Istituzioni, ma con il fine secondario di decostruirne le logiche, laddove utile e possibile.

Un errore che spesso si compie è quello di immaginare e progettare interventi sulla base di quello che il professionista presuppone che sia “la cosa giusta”, senza considerare il contesto e le differenze. Non possiamo pensare di normalizzare la diversità, ma occorre uno sforzo per diversificare la norma, cogliendo la complessità delle situazioni e quindi dei bisogni che da esse emergono (Saraceno 2018). Non vogliamo infatti cambiare le persone secondo ciò che per noi è giusto; ne rispettiamo l’unicità e le scelte, cercando il più possibile di disfarci di pregiudizi che rischiano di fare del nostro lavoro un esercizio di potere.

Da diversi anni, proprio per evitare di leggere e interpretare il mondo psicologico adottando modelli medicalizzati e occidentalizzati, TiAscolto sta sperimentando l’utilizzo del PTM (Power Threat Meaning Framework) come strumento utile alla comprensione del funzionamento mentale delle persone che a noi si rivolgono. Attraverso questo modello il sintomo non viene più letto in modo disfunzionale, ma come risposta adattiva a dinamiche di potere e minaccia (British Psychological Society 2018). Leggere il funzionamento mentale in questi termini vuol dire ampliare il campo di osservazione, adottare un paradigma ambientale e contestuale in cui fattori neurobiologici, schemi di interpretazione, modelli operativi ecc. non vengono negati, ma assumono la natura di conseguenza, anziché causa. Guardare alla salute mentale in quest’ottica ha numerose conseguenze sugli interventi che la riguardano, tanto in ambito sociale quanto di comunità. Quando diciamo che personale è politico intendiamo tutto questo. Fino ad ora quella psicologica è stata una categoria socialmente troppo poco impegnata e poco coinvolta; il lavoro di aiuto è stato principalmente volto a riparare i danni, quando molto si sarebbe potuto e si potrebbe fare per evitare di crearne.

Psicoterapia urbana per noi significa perseguire un’etica di accesso ad opportunità affettive e sociali. Ciò è possibile lavorando in sinergia con altre realtà che si occupano di aiutare le persone a gestire difficoltà legate alla casa, al lavoro e simili. Il nostro ruolo è prima di tutto quello di rispondere al diritto fondamentale di essere ascoltati. Inoltre, cerchiamo di svolgere un’azione preventiva attraverso il lavoro con famiglie multiproblematiche, in cui il rischio di esposizione al trauma e il conseguente sviluppo  di risposte sintomatologiche sono molto alti; vivere in contesti caotici non mette infatti nella condizione di poter sperimentare sicurezza e senso di integrazione. Questo vale per i genitori e di conseguenza per i figli; il tentativo è quello di interrompere una catena di eredità intergenerazionale della sofferenza.

Il fine ultimo del nostro lavoro di psicoterapia urbana è quello di aiutare le persone ad aspirare a un maggior benessere e una maggiore libertà, rendere prima di tutto per loro pensabile la possibilità di uscire da una condizione di svantaggio.  Ma questo lavoro non può essere fine a se stesso; le persone devono altresì essere messe nella condizione di poter acquisire strumenti che ne aumentino il benessere e parallelamente hanno diritto ad accedere a beni e risorse che le aiutino ad aumentare il proprio senso di autonomia e responsabilità.

Per poter desiderare e per poter acquisire gli strumenti necessari a raggiungere ciò a cui a aspiriamo, dobbiamo essere messi nella condizione di poterlo fare. Questo è il nostro impegno attraverso una pratica urbana della psicoterapia. Pensiamo che sia scorretto dire che la vita è una tombola. Al contrario di come suonavano i versi di una famosa canzone infatti, la vita non è una tombola, ma una partita a Monopoli, dove lo status  di vincenti e perdenti si decide nei primi turni di gioco, e una volta che ti è stato assegnato un destino, uscirne è incredibilmente dura.

Bibliografia 

British Psychological Society (2018) The Power Threat Meaning Framework. British Library

Cancrini L. (2012) La cura delle infanzie infelici. Raffaello Cortina Editore, Milano

Illich I. (2013) Nemesi medica. La paradossale nocività di un sistema medico che non conosce limiti. Red Edizioni, Cornaredo (MI)

Saraceno B. (2018) Psicopolitica. Città, salute, migrazioni. Derive Approdi Editore, Roma

WHO (2014) I determinanti sociali della salute mentale. traduzione a cura di Dors (2017)

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