di Cynthia Cruz

Ed. Blu Atlantide 2022, Orig. The Melancholia of Class. A Manifesto for the Working Class, 2021.

Poiché le persone della working class hanno sperimentato una morte simbolica, tentare di parlare di classe sociale significa evocare un fantasma. Questo libro è popolato di figure simili a spettri. Né viva né morta, la working class esiste fra i mondi” (p. 14).

Chi sono questi fantasmi working class che infestano le società capitalistiche neoliberiste? Che posto hanno i loro vissuti, le loro esperienze di sofferenza e i tentativi di uscirne? Che cos’è questa melanconia che pervade le traiettorie delle persone working class?

Attorno a queste domande si sviluppa il libro di Cynthia Cruz, una poetessa, saggista, ricercatrice e docente accademica che intreccia la propria storia personale, nata in una famiglia working class di origini messicane e passata attraverso diversi vissuti dolorosi nel percorso da transfuga di classe una volta entrata nel mondo accademico, a un’elaborazione di ampio respiro che mescola generi di scrittura e analisi, dalla critica culturale, musicale, cinematografica e letteraria, agli sguardi filosofici, psicoanalitici e sociologici, arrivando a produrre un mix denso di suggestioni psicopolitiche che riverbera fortemente in particolare con il lavoro di Mark Fisher rispetto agli effetti psichici del realismo capitalista[1].


L’autrice sviluppa la riflessione concatenando episodi e frammenti della sua vita a film, libri e in particolare le storie di artistə e musicistə con origini working class, dai Joy Division a Amy Winehouse passando dai Jam, Marshall e Barbara Loden e moltə altrə, ognunə a loro modo rappresentativə di questa particolare condizione spettrale. Un’esperienza quella working class fondata su una cancellazione simbolica totale della propria condizione, in una società che pur reggendosi sul lavoro delle persone working class in condizioni di sempre maggior e pervasivo sfruttamento nega l’esistenza stessa delle classi sociali, in un mondo in cui tuttə saremmo appartenenti a una “magica” classe media che ha nelle proprie mani il proprio destino e in cui il fallimento e la povertà è unicamente responsabilità individuale. Un’esperienza cancellata a cui se ne aggiunge un’altra nell’esito della traiettorie di chi prova a fuggire dalle proprie origini, come la Cruz stessa e lə artistə descrittə, in cui il ritrovarsi nei contesti borghesi e privilegiati diventa allo stesso tempo impossibile, senza la possibilità di essere pienamente riconosciuti, di esprimersi e di essere compresə e ascoltatə: “davanti all’opzione di due morti – morire nel passato o rinunciarci, che equivale a rinunciare a sé stessi, e sopravvivere – quale morte scegliereste voi?” (p. 155). Una doppia negazione, che risuona con la “doppia assenza” di Abdelmalek Sayad [2] e che sfocia in una doppia morte: non è possibile essere pienamente in vita in questo doppio vuoto pneumatico, sociale, simbolico e psichico. Una condanna in entrambi i casi a una “morte nella vita” come descriveva Frantz Fanon ne La sindrome nordafricana[3] rispetto alla condizione degli immigrati dal Maghreb in Francia negli anni ‘50, nel loro vissuto di svuotamento e corpo a corpo quotidiano con la morte nell’annichilimento della dinamica razziale e coloniale: un’atmosfera assente e mortifera che sembra accompagnare anche l’esperienza di vita dei fantasmi working class descritti dalla Cruz.
Ed è qui che l’autrice richiama il lavoro di Freud in “Lutto e melanconia”, in quell’esperienza melanconica di perdita in cui non è chiaro che cosa si sia perso, e in cui l’unico modo di esprimere questa perdita sia rivolgerla contro sé stessə, in un contesto sociale e politico che impedisce la possibile elaborazione di questo lutto negando l’esistenza stessa dell’oggetto perduto: “Quando ho abbandonato la mia città per diventare “qualcuno”, mi sono lasciata alle spalle il mio oggetto d’amore formativo, la mia educazione working class. Per poter elaborare il lutto di questa perdita avrei dovuto prenderne atto. Ma siccome negli Stati Uniti la classe come come oggetto del discorso è stata rimossa, siccome agli americani è stato insegnato a credere che non ci sono differenze di classe, quando ho abbandonato le mie origini, quello che ho perso è rimasto invisibile ai miei occhi” (p. 89).

In questa invisibilizzazione è il corpo, fenomenologicamente, a diventare luogo di espressione piena di questo dolore, così come delle rabbie incontenibili: i vissuti anoressici e bulimici dell’autrice, così come l’abuso di sostanze e alcool e gli atti suicidari dellə artistə raccontate, vengono riletti attraverso il tentativo di riprendere controllo di questa doppia morte imposta, attraverso la spinta estrema all’autodistruzione. Una spinta a farla finita che più che uno spegnimento rassegnato viene analizzato come una spasmodica ricerca di una conclusione che porti a un nuovo inizio, in un’interessante ricollocazione della pulsione di morte freudiana.

Ma anche le forme di espressione controculturali, come il punk e i mod, sono riletti alla luce della melanconia di classe e dei suoi tentativi di romperne i meccanismi, in un intreccio tra atti individuali e collettivi di ricerca di altri spazi da quelli prescritti dalle società neoliberiste. I luoghi e la spazialità sono infatti un altro nodo fondamentale della riflessione dell’autrice: le spinte autodistruttive così come i tentativi di espressione creativa e sociale collettiva convergono nella ricerca di un “terzo spazio” (p. 192) tra le due morti della working class. In una società in cui per le persone working class non esiste il tempo libero o luoghi non determinati dal lavoro o dalle condizioni di emarginazione, in quartieri aggrediti dalla gentrificazione e case sempre più invivibili, il costante muoversi verso una fuga impossibile, attraverso esperienze dissociative psichiche e reali, appare come una ricerca di un altrove dove poter ritrovare sollievo e capacità di agire. Spazi intrisi di passato ma non nostalgici, radicati in un tentativo di redenzione della propria storia come analizza l’autrice attraverso il lavoro di Walter Benjamin.

Il libro della Cruz è una lettura che appare illuminante per smettere di negare la working class, nella società come nella clinica psicologica, e riconoscere come l’antagonismo tra le classi non sia qualcosa che è realmente possibile nascondere in favore di letture riduzionistiche (biomediche, familiari, culturali) ma che trova le strade per emergere. Una via alternativa che traccia l’autrice è al contrario riconoscere nel loro complesso le traiettorie delle persone working class e le diverse forme di espressione di sofferenza così come le loro risorse e strategie di sopravvivenza, rottura e lotta, e tra questi sentieri potrebbero dispiegarsi percorsi di cura e salute centrati sui bisogni e i desideri della working class, dismettendo le lenti borghesi e neoliberiste dominanti anche in campo clinico e scientifico.

Un paio di secoli fa un famoso spettro si aggirava per l’Europa[4], oggi la Cruz ci accompagna tra le storie di altri spettri continuano a muoversi e cercare un modo per prendere spazio, voce, vita. E se invece che su un lettino riuscissimo veramente a conoscerli, e conoscerci, nelle lotte di classe? Buona lettura!


[1] Fisher, M., Realismo capitalista, Nero, 2018.

[2] Sayad, A., La doppia assenza, Raffaello Cortina Editore, 2002.

[3] Beneduce, R., (a cura di), Fanon, F., Decolonizzare la follia: scritti sulla psichiatria coloniale, Ombre Corte, 2011, p. 92.

[4] “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”, Marx, K., Engels, F., Il manifesto del partito comunista, Feltrinelli, [1848] 2017.

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