“Tocchiamo qui il punto debole della nostra epoca, la sua tragedia e la sua contorsione. Questa esperienza primaria preesistente al sapere, e che è l’unica fonte di opere ispirate, sembra esserci rifiutata”

Hans Prinzhorn

Sebbene i reati di natura violenta siano in calo da qualche anno, l’attuale campagna elettorale sembra dominata dal tema della sicurezza, in Italia come in una larga fetta di Europa. Perché? Perché siamo così sensibili all’allarme, anche se simulato e dissociato dalla realtà? Perché in un mondo dove oggettivamente la sicurezza non è un problema, il desiderio comune e l’agenda politica puntano ad aumentarla? Perché ci sentiamo insicuri?

Proviamo a rispondere rispolverando i contributi di chi ha studiato più nel dettaglio cosa significhi per un individuo ed una comunità vivere in uno stato di perenne crisi ed emergenza, e quali siano le radici di questo sentire comune, segno del nostro tempo. Due su tutti: Paul Goodman (1963) in Psicologia dell’impotenza e Miguel Benasayag & Gérard Schmit (2013) in L’epoca delle passioni tristi.

Benasayag e Schmit tracciano un continuo tra impianto culturale ed economico, incertezza del presente, e percezione del futuro della generazione della crisi. Il neoliberismo produce una cultura del possesso e del successo che vedono l’individuo come un sistema chiuso, che utilizza l’ambiente e gli altri sistemi-individui per il proprio vantaggio. Ma come sappiamo dalla seconda legge della termodinamica, non è possibile introdurre ordine in un sistema chiuso senza introdurre disordine in un altro. Gli altri (sistemi) diventano così una minaccia che rende difficile il respiro, in un’atmosfera di relazioni economiche e sociali precarie, basate sulla competizione e sull’utilità. Il futuro stesso diviene minaccioso, la crisalide evanescente di un divenire sottratto alla creatività e all’immaginazione. La comunione con gli altri, la possibilità di proiettarsi in un futuro insieme personale e collettivo, si sgretola sotto i piedi. Ci si ritrova sradicati, esposti alle intemperie. Tale condizione di impotenza svuota il futuro della sua tensione generativa, delle sue prospettive maneggiabili. Esso diventa un destino meccanico, il vecchio mito del treno a vapore fuori controllo che corre ineluttabilmente lungo le rotaie del “sistema”. Una locomotiva ideologica che non traina più a rialzo le percentuali del PIL come faceva un tempo, che miete ormai troppe vittime e in cui quindi non crediamo più fino in fondo.  La liturgia della crescita, della ripresa dei consumi, diventa un rituale vuoto, una promessa di redenzione laica. Questa concezione utilitaristica della vita, viene insegnata alle nuove generazioni. Essa viene addirittura rafforzata dalla crisi economica, proprio perché in tempo di crisi si è più portati pensare che tutto debba servire a qualcosa. I giovani apprendono così “sotto minaccia” che dovranno lottare per un posto nel mondo. L’impossibilità di un fare disinteressato promosso dal piacere intrinseco alle cose, è Secondo Benasayag e Schmit esattamente ciò che sta alla base del senso pervasivo di impotenza e insicurezza. Ciò che fonda la cultura occidentale è allo stesso tempo ciò che la sta minando dal suo interno. Ma il treno sbuffa lo stesso, fa sentire il suo fischio, arranca quasi per abitudine, non si ferma per non scatenare il panico e acuire le tensioni sociali, nonostante gli avvertimenti degli “strikers for future”.

E a chi non sciopera per il futuro cosa rimane? L’impotenza immersa in un mondo minaccioso, in perpetuo stato di crisi ed emergenza, dalla quale fuggire ognuno a modo suo secondo le proprie doti. Si aprono quindi  vari scenari, già dipinti da Goodman nel suo attualissimo saggio del ’63. Chi può permetterselo si segrega in casa, privato nel privato, dove almeno conserva “potere d’acquisto”. Abbandona la nave per la scialuppa di salvataggio. Ma a quale prezzo!

La famiglia e lo standard di vita diventano gli unici affari da proteggere, dai ladri, dagli altri, dall’innovazione culturale. L’unico bene comune di valore è la sicurezza. L’ansia diventa di status (Pickett & Wilkinson, 2018), ci si arma per difendere quel che si ha. Si armano i figli per conquistarlo (con armi d’istruzione di massa). Molti giovani non reggono il peso della competizione e si ritirano nei mondi virtuali in cui possono tutto. La lontananza dagli altri si tramuta presto in isolamento e depressione. Intanto al di là dei confini della legittima difesa, dove finisce ciò che è mio, cresce l’indifferenza e il cinismo.

Poi c’è chi doti non ne ha: il neo-proletariato periferico, più escluso che sfruttato nella società moderna. Chi non può rifugiarsi nel privato, nelle abitudini del consumo e nelle prospettive di carriera, rimane in strada dove la competizione allarga le file dei complottisti e della guerra tra poveri (una guerra vaporizzata e microdosata, ma comunque presente nel quotidiano). Poveri che o combattono o si arrendono, gettandosi tra le braccia dell’assistenzialismo statale, dove previsto e accessibile, oppure identificandosi con il potere, coi leader muscolari che promettono il ritorno del passato per stuccare le crepe del futuro (make America great AGAIN!). La politica diventa così tifo e adorazione ur-fascista (Eco, 2018) dell’azione per l’azione, premiando proprio quegli attori politici che si fanno garanti dell’attuale sistema economico alla radice del problema.

Questi sono circoli viziosi pericolosi, dove il venir meno della coesione sociale e l’insicurezza si intrecciano e autoalimentano. Come capita spesso, la reazione di panico e di allarme ha effetti più drammatici della minaccia in sé (sempre che la seconda esista senza la prima). Dunque respiriamo, forse c’è un po’ di fumo ma non corriamo calpestandoci, dirigiamoci verso la via d’uscita. Potremmo per esempio, come suggerito da Benasayag & Schmit: “promuovere spazi di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescono ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano”…uno spazio di inter-esse dis-interessato dove regna l’utilità dell’inutile, che è l’utilità della vita. Questo significa reinvestire nei legami, superarne la visione “contrattuale” e limitante, in virtù dello sviluppo di pratiche più desiderabili, potenti e ricche. Ma per fare ciò è necessario innanzitutto cambiare noi stessi.

Per ripartire, per rianimare la crisalide, per non rifuggire la realtà sociale di oggi, per rimanere uniti potremmo cominciare dal chiederci: “Cosa faccio io per ripararmi dall’impotenza?”

E gli psicologi, gli operatori della salute mentale? Che risposte alle minacce dell’impotenza mettono in atto, e a quali rischi sono associate? Particolarmente riuscita è la metafora che Benasayag & Schmit utilizzano a tal proposito: immaginate un dermatologo che eserciti in Patagonia, dove il buco dell’ozono aumenta esponenzialmente i casi di tumore alla pelle. Ora il rischio di questo professionista, in buona fede, è quello di continuare ad esercitare la sua tecnica come nulla fosse, cos’altro può fare. Trattare con affanno, prima tre, poi trenta e poi trecento casi all’anno, senza interrogarsi sulla nuova eziologia dell’epidemia in corso, senza ammettere di non poter comprendere con le sole competenze professionali quel che sta accadendo. La verità è però che la risposta a certi disagi sociali non può essere meramente tecnica, bisogna alzare lo sguardo e notare che c’è un buco nell’atmosfera sopra alle nostre teste per avvicinarsi veramente alla sofferenza di chi incontriamo. In fondo la vita non è un fatto molto personale.

Bibliografia

Paul Goodman (1963). The psychology of powerlessness. The New York Review of Books.

Miguel Benasayag & Gérard Schmit (2013). L’epoca delle passioni tristi. Universale Economica Saggi

Kate Pickett & Richard G. Wilkinson (2018). The inner level. Penguin Books Ltd

Umberto Eco (2018). Il fascismo eterno. La Nave di Teseo

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