“Il valore dell’uomo, sano o malato, va oltre il valore della salute o della malattia.
Quando il valore è l’uomo, la salute non può rappresentare la norma
se la condizione umana è di essere costantemente fra salute e malattia.”
[F.Basaglia, Crimini di Pace]
Nel campo dell’esperienza ci sono aspetti essenziali e costitutivi e tuttavia può accadere che questa essenzialità, proprio perché ci è prossima, sfugga alla nostra considerazione. Costantemente impegnato nel suo essere nel mondo, l’uomo deve fare i conti con la sua fragile condizione, che lo coinvolge in forma e misure diverse: nasciamo come esseri vulnerabili ed estremamente fragili, viviamo nell’eventualità costante della malattia, la nostra vita è segnata dall’affievolirsi nella vecchiaia e, infine, dalla morte; nessuno può considerarsi completamente autonomo o indipendente: questi legami non imposti, eppure non volontariamente scelti, riempiono le nostre vite1. Sicché, la dignità dell’essere persona, pone sempre una domanda: la domanda di cura, e con essa una risposta: la presa in carico della fragilità umana.
Situando il punto di partenza nell’ineluttabilità della vulnerabilità umana, non si tratta allora di capire come emanciparsi o liberarsi dalla dipendenza e dal bisogno di cura, – come, del resto, le brame del nostro tempo imporrebbero- ma di valorizzarla ed entrare in merito alle dinamiche che la costituiscono. La proposta, perciò, è quella di un’investigazione filosofica che possa essere motivo di riflessione circa la dimensione che, parafrasando le parole del filosofo Martin Heidegger, rivela la natura stessa del nostro essere: la Cura2. Un’inversione di rotta, dunque, rispetto a quanto il riferimento antropologico della contemporaneità sembrerebbe mirare, deviando la possibilità di costruire in senso autenticamente etico la relazione umana.
In un tempo in cui efficacia sembra essere la parola d’ordine si tratta di considerare, dunque, la necessità di una riflessione che ponga l’accento sulla vulnerabilità umana quale costitutiva dimensione ontologica: questioni fondanti e fondamentali, che rappresentano una grande sfida, al netto di una comunità che parrebbe dissolta in una preoccupante abulia, quando si tratta di bisogni di cura e relazioni di dipendenza.
Si tratta di un problema culturale: la nostra epoca, come del resto accade in ogni tempo, ha elaborato una mitologia sociale che si fonda sull’identificazione della persona con un io autonomo e indipendente con una solida capacità referenziale e di ragionamento, sovrapposizione che apre la strada a dinamiche pericolosamente escludenti nei confronti di coloro i quali non possiedono tali requisiti. Il rischio è di creare categorie di pensiero nelle quali non tutti gli esseri umani possono essere ricompresi3 prescindendo, inoltre, dall’evidente dato di realtà per cui chiunque, in momenti più o meno lunghi della propria esistenza, si ritrova privo di simili qualità. Le qualità si perdono e si acquisiscono, basare il valore della persona su di esse, giocoforza, rende il concetto stesso di persona intermittente, condizionando il dibattito etico sui diritti fondamentali. «Storicamente, – spiega Adriano Pessina – il convincimento che l’uomo malato abbia il diritto di essere curato, e che questo diritto riguardi ogni singolo uomo al di là della sua situazione, economica, sociale, culturale, è andato sviluppandosi di pari passo con il rafforzarsi della duplice idea dell’uguaglianza tra gli uomini e del riconoscimento del valore dell’essere umano in quanto tale»4.
Dalla consapevolezza relativa al rischio, sempre presente, di diventare complici ed artefici di condizioni di esclusione, deriva l’urgenza della coscienza del proprio posizionamento rispetto a questi temi. Un chiarimento su chi (e non cosa) è persona, nozione che storicamente esprime in modo chiaro il valore dell’essere umano e che, d’altra parte, subisce continue incomprensioni e storpiature, diviene allora fondamentale per comprenderne il senso più autentico, che col tempo è andato perduto.
Il termine ha una lunga storia5: la parola persona ha origini arcaiche, che risalgono al suo uso greco, ove l’espressione pròsopon serviva per indicare la maschera teatrale, intendendo dunque la presenza di qualcuno, il personaggio, e allo stesso tempo un’identità celata, quella dell’attore. È interessante notare come, nella cultura precristiana, l’uso del termine fosse legato all’ambito artistico, non antropologico o teologico. Con l’avvento del Cristianesimo, il termine entra a pieno titolo nel sistema teologico, rivestendo un ruolo chiave nella concezione Trinitaria: la presa in uso del termine persona risponde alla necessità di esprimere al meglio il rapporto tra uomo e Dio, garantendo il monoteismo ereditato dalla fede ebraica, attraverso la distinzione tra persona umana, persona angelica e persona divina. Il fatto che questo termine sia poi entrato anche nel linguaggio antropologico, dipende in larga misura dall’influsso del pensiero ebraico-cristiano nella nostra cultura. Il dibattito teologico sul termine si sviluppa e si arricchisce fino ad arrivare alla contemporaneità, intrecciandosi con la riflessione filosofica. I passaggi salienti della storia del concetto recuperano il pensiero di Tertulliano, di Boezio e di Tommaso d’Aquino, il quale evidenzierà come la nozione di persona attribuita all’uomo (oltre che agli angeli e a Dio) serva innanzitutto per evidenziare l’unicità.
«Il modo di essere uno della persona umana- spiega Pessina ripercorrendo l’evoluzione della nozione – è differente dal modo di essere uno di ogni altro ente, anche vivente. Infatti, mentre è evidente che ogni ente ha una propria unità, e che un gregge di pecore è fatto da un certo numero di pecore di cui ognuna è una, nel caso dell’unicità della persona, anche della persona umana, ciò che si afferma è che ci troviamo di fronte a ciò che, per usare una nozione cara alla modernità, è la soggettività. L’uomo è un soggetto in senso proprio (non semplicemente secondo l’accezione grammaticale) e il termine persona serve per ricordarlo, per renderlo esplicito. Da questo punto di vista, l’essere persona dell’uomo è la sua costante ontologica, ciò che fa di un uomo, in tutte le fasi dell’esistenza, un soggetto, anche prima che sia in grado di esprime la propria personalità, anche qualora non fosse mai in grado di farlo»6. Porre la persona umana come un valore in sé, in quanto soggetto unico e irripetibile è, altresì, il presupposto fondamentale per riflessioni di tipo morale: «se non si accetta questa base, veramente minima, ma non minimalista, non si possono escludere reciproche forme di discriminazione e si innesca quella logica dell’homo homini lupus di cui peraltro l’Occidente non si è mai liberato»7: una logica che legittima l’idea, nella logica dell’utile e del profitto, che non valga la pena affrontare costi economici nell’ambito delle politiche pubbliche che non verranno mai ripianati e che comunque graveranno sulle finanze dei sani e degli efficienti8. Il valore unico e irripetibile che ogni persona costituisce, viceversa, andrebbe tutelato, tantopiù quando un soggetto non è nelle condizioni di poterlo fare autonomamente, tenendo inoltre presente che non si tratta di condizioni eccezionali ma di costanti presenti nella vita di ognuno. Pensare alla persona umana in questi termini, secondo quello che potremmo definire il modello umanistico-teologico9, alla somma, significa slegare la sua concezione da considerazioni che hanno a che vedere con la qualità della vita per indicare il criterio in base al quale misurare il valore di un uomo10. Se, viceversa, l’uomo «non possiede alcuna caratteristica che possa giustificarne un valore intrinseco, allora è evidente che l’apprezzamento per il singolo individuo della specie umana sarà legato alla considerazione delle sue sole doti naturali della salute fisica, sella sua prestanza, delle sue prestazioni intellettuali»11, non potendo però ricomprendere tutti gli esseri umani o dovendone escludere altri per periodi di tempo.
Le riflessioni tracciate fin qui, mettono in luce l’urgenza di un cambio di paradigma: dobbiamo abbandonare le logiche di profitto, efficacia ed individualismo competitivo12 per adottare il linguaggio della cura e della responsabilità, che motiva e giustifica il dovere di prendersi cura proprio a fronte del fatto che si considera l’altro un valore al di là delle sue qualità e malgrado le sue condizioni.
Se l’etica è pensabile come «un ambiente culturale e linguistico che fornisce all’uomo gli strumenti culturali che gli permettono di approvare o biasimare le azioni umane»13 e se la filosofia morale sorge come una riflessione critica di questi strumenti, è l’etica della cura -che si colloca all’interno delle riflessioni della filosofia morale- ad offrire un contesto filosofico profondo nel quale posizionarsi.
Di qui la forza e l’occorrenza delle riflessioni di Martin Heidegger, punto di riferimento nella trattazione del tema etico filosofico della cura. Egli mette in luce, in Essere e Tempo, come la cura «si situa, per la sua priorità esistenziale, “prima” di ogni “comportamento” e di ogni “situazione” effettivi dell’Esserci»14 dato che «l’essere dell’esserci si rivela come Cura»15. La cura –la sorge –, è la radice primaria dell’essere umano e il fondamento stesso dell’esistenza.
Oltre a definirne il concetto, il filosofo propone un’analisi fenomenologica dei modi con i quali la cura si realizza, delineando «due possibilità estreme»16: la cura intesa come besorgen o come füsorghe.
La prima modalità –besorgen– rappresenta un agire nella quale l’essere dell’esserci – e cioè la cura – è un con-essere con-l’altro che non ne prende il posto, né lo sostituisce, né lo esime dalle sue responsabilità, ma lo presuppone con riguardo per non sottrarlo a se-stesso: è un agire con cura liberante. È questo il modo dell’aver cura autentico, poiché in esso l’esserci può pervenire a se stesso insieme con l’altro; così Heidegger descrive questa modalità: «anziché intromettersi al posto degli altri, li presuppone nel loro potere esistentivo, non già per sottrarre loro la cura, ma per inserirli autenticamente in essa»17. Solo in questo modo la cura si rivela come dimensione costitutiva d’essere, e solo in questo modo la cura, in questo essere con e presso l’altro, assume la forma di un vero e proprio incontro18.
Opposta a questa, è la possibilità di aver cura definita da Heidegger füsorghe. Qui la presa in carico manca l’incontro personale, delineandosi come mera vicinanza, in uno scadente e superficiale stare con l’altro che si alimenta della mutilata preoccupazione di procurare le cose e di asservire a bisogni attribuiti, trasformando la relazione di cura in una forma di dominio che estromette l’altro, anche se il dominio è dissimulato. È un depotenziamento dell’altra soggettività, ridotta a cosa tra le cose, che considera unicamente il chi si prende cura, polarizzando la relazione e svuotandola di senso19. «Questo aver cura, che solleva l’atro dalla “cura” – scrive Heidegger- condiziona largamente l’essere – assieme e riguarda perlopiù il prendersi cura degli utilizzabili»20.
Entrambe le forme di cura, va detto, sono in qualche modo necessarie21 (si pensi al dovere sempre più impellente di prendersi cura delle cose del mondo) e tuttavia, ammonisce Heidegger, solo la cura che assume la forma della besorgen può dirsi autentica nel rapporto con un altro io. L’uomo, quando entra in contatto con altri esserci deve aspirare ad una forma di cura più alta, libera da fini pratici, che si designa come un essere insieme all’altro. Il tempo della cura, dunque, non può che essere un tempo dedicato, secondo la valenza latina dell’ ad sistere, del fermarsi, del farsi testimoni22; si tratta di un tempo non contabilizzabile, non riducibile in frammenti, poiché è un tempo umano che ha a che fare con il narrativo e il biografico, che talvolta coincide con vissuti di angoscia, ansia, paura.
Anche la malattia, segno evidente della vulnerabilità, è per Heidegger una questione che ha a che fare con il tempo. Si tratta di un tempo nel quale la salute non si manifesta, essendo ciò che, per periodi più o meno lunghi della nostra esistenza, all’apparenza può nascondersi, pur continuando ad esserci23. Sebbene la malattia rappresenti innegabilmente un fenomeno di privazione, questa non va intesa secondo logiche esclusivamente negative, dato che «in ogni privazione risiede la essenziale appartenenza a ciò a cui qualcosa manca, a cui qualcosa viene meno»24. Salute e malattia sono, per Heidegger, due aspetti del nostro vivere, il medesimo volto di ciò che nel linguaggio ordinario chiamiamo semplicemente salute. È per questo che, ogni qual volta ci rivolgiamo all’altro chiedendo come ti senti? inaugurando una relazione di cura, ciò ha il significato di andare a ricercare ciò che è nascosto; scrive Heidegger: «Il cercare, in quanto cercare qualcosa, ha un suo cercato. Ogni cercare qualcosa è in qualche modo un interrogare qualcuno. Oltre al cercato, il cercare richiede l’interrogato»25.
La persona malata, secondo il filosofo, somiglierebbe allora ad un fiore senza tempo, dalla fioritura tardiva, non conforme ai tempi consueti: «una parola caratteristica per ciò che è stato finora detto – scrive Heidegger- è costituita dall’antico nome per un fiore: la Zitelosa. Se non si sapesse nulla della privazione e non si avesse alcun concetto giusto del tempo, ciò sarebbe un fiore che è senza tempo. Il nome indica, invece, il fiore che non fiorisce al tempo giusto»26. È così che il malato, che sia un fiore precoce o tardivo, non resta mail al di fuori del tempo. Egli non è mai inopportuno27 e non va mai escluso, poiché resta nel tempo della cura, del ricercare…che altro non è che il tempo autentico dell’esistere, dato che «l’essere dell’esserci si rivela come Cura»28.
Le linee e i percorsi tracciati fin consentono di cogliere e comprendere il problematico contesto antropologico e politico con cui, una riflessione etica intorno alla relazione di cura, deve inevitabilmente fare i conti.
A fronte di tali considerazioni, come concepire uno spazio pubblico che consideri costitutivo l’agire con cura? Quale concezione politica per l’uomo vulnerabile?
L’etica della cura offre un contributo significativo sul piano antropologico, rivelando l’ineluttabile dato di fatto della vulnerabilità umana, insieme con il principio della costitutiva relazionalità che lega noi tutti. Viviamo in un equilibrio costante ma precario tra salute e malattia: accettare questa ineliminabile condizione significa anche ripensare all’autonomia, che cessa di essere sterile autosufficienza e diventa parte di un sistema relazionale che costituisce la persona e lo spazio che abita. È per questo che l’homo independens, che spesso è stato protagonista di modelli sociali razionali e improntati sull’individuo, dovrebbe lasciar spazio all’homo curans, così da ripensare ad uno spazio pubblico autenticamente umano ed inclusivo.
Un’etica della cura come teoria politica, dunque, che generi responsabilità collettive nell’organizzazione delle istituzioni e che fornisca i criteri per quell’intreccio di relazioni umane così sapientemente descritto da Hannah Arendt29. L’intento vorrebbe essere quello, come del resto è proprio della filosofia, di sfidare gli assetti presenti e di mettere in discussione lo stato attuale delle cose. «Le persone di cui stiamo parlando, del resto, -scriveva Arendt- non sono eroi o santi, e se diventano martiri, cosa che può sempre capitare, lo diventeranno comunque senza volerlo»30. Cosicché è l’etica della cura a ricordarci che si diventa uomini per mezzo degli altri uomini.
BIBLIOGRAFIA
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1 Cfr. KITTAY E., La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2010, p.110.
2 HEIDEGGER M., Essere e tempo a cura di F. Volpi, trad. it., Longanesi & C., Milano 1971, p.223.
3 Si riportano, a tal proposito, le affermazioni del Governatore della Liguria Giovanni Toti – 1.11.2020-: «Per quanto ci addolori ogni singola vittima del Covid 19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate»; cfr. https://www.corriere.it/politica/20_novembre_01/toti-twittet-over-70-8c43e574-1c36-11eb-a718-cfe9e36fab58.shtml. Leggere di persone non indispensabili secondo categorie produttive delle quali ci si sente autorizzati, proprio a fronte di questa inservibilità, a soppesarne la morte, rende nota di come simili concezioni umane generino società esclusive ed escludenti. Si vedano inoltre, a tal proposito, le cronache relative alla negazione di terapie ad alcuni pazienti sulla base di criteri come la capacità cognitiva e il livello di disabilità fisica nell’ambito dell’emergenza sanitaria Covid-19; cfr. https://www.avvenire.it/mondo/pagine/niente-respiratori-per-i-disabili-pi-di-10-stati-scelgono-chi-salvare.
4PESSINA A., “Venire al mondo”. Riflessione filosofica sull’uomo come figlio e come persona, in CARIBONI C., OLIVA G., PESSINA A., Il mio amore fragile. Storia di Francesco, XY.IT Editore, Arona 2011, p.65.
5 Cfr. ibi pp. 79-93.
6 Ibi, p.85.
7 PESSINA A., Bioetica, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 93.
8 Cfr. PESSINA A., “Venire al mondo”. Riflessione filosofica sull’uomo come figlio e come persona, p.68.
9 Cfr. ibidem.
10 Cfr. ibi p.65.
11 Ibidem.
12 Logiche di profitto, efficacia ed individualismo competitivo diventano oggi criteri sulla base dei quali discutere – se non addirittura garantire- il diritto alla salute. Si vedano le affermazioni dell’assessora al welfare della regione Lombardia Letizia Moratti – 18.01.2021- sulla possibilità di introdurre il PIL come criterio per la campagna vaccinale per contrastare l’emergenza da Covid-19; cfr. https://www.ilpost.it/2021/01/19/moratti-pil-vaccini/.
13 Ibi, p. 80.
14 HEIDEGGER M., Essere e tempo, p.236.
15 Ibi, p. 223.
16 Ibi, p 153.
17 Ibidem.
18 Cfr. ibidem.
19 Ibidem.
20 Ibidem.
21 Cfr. A.PAPA, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vite e Pensiero, Milano 2014, p. 31.
22 Cfr. Ibi, p.27.
23 Cfr. Ibi, pp. 49-50, 59.
24 HEIDEGGER M., Seminari di Zollikon, Guida Editori, Napoli 2000, p. 86.
25 HEIDEGGER M., Essere e tempo, p 16.
26 HEIDEGGER M., Seminari di Zollikon, p. 92.
27 Cfr. PAPA A., L’identità esposta. La cura come questione filosofica, p. 66.
28HEIDEGGER M., Essere e tempo, p. 223.
29 Cfr. ARENDT H, Vita Activa, La condizione umana, Bompiani, Milano 2015, p.133.
30 ARENDT H., Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino 2015. p. 37.
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