Uno degli effetti della pandemia di Covid-19 è stata la crescente centralità che il tema “salute mentale” ha acquisito nel discorso pubblico, non solo in Italia. Questa tendenza, che non nasce dal nulla ed era già presente prima del 2020, risulta particolarmente marcata quando il soggetto sotto i riflettori è la persona adolescente.

La crescente attenzione al tema si accompagna a dati e numeri, spesso riportati con un certo sensazionalismo (vedi ad es. il recente intervento di Fedez a “Che tempo che fa”), che confermano l’importanza del tema e passano un messaggio chiaro, ormai entrato nella narrativa dominante: i giovani stanno male, bisogna fare qualcosa.

Aver creato questo spazio per il tema è primariamente una cosa utile e importante: laddove c’era silenzio, difficoltà a comunicare, a volte minimizzazione dei problemi e spesso stigma, ora c’è attenzione e una dichiarata intenzione di prendersi cura di una nuova generazione che da tempo esprime il proprio disagio con modalità sempre più eclatanti, che prendono le forme di vere e proprie richieste di aiuto disperate.

Tuttavia essere al centro del dibattito pubblico non sempre si traduce effettivamente in attenzione qualitativamente migliore sul tema, così come più attenzione non sempre si traduce in iniziative e azioni che portano ai risultati sperati.

Effettivamente, nonostante la crescente attenzione da parte del mondo adulto alla salute mentale degli adolescenti, e alla ricerca delle possibile cause, la sofferenza espressa e le richieste di aiuto da parte dei giovani continuano ad aumentare: sembrerebbe legittimo chiedersi se, seppur mossi da buone intenzioni, qualcosa non stia funzionando.

L’intenzione di questo articolo, nato a seguito del tempo passato ad incontrare adolescenti in colloqui individuali, famigliari, e in momenti assembleari nelle scuole ed in contesti informali, è quello di uscire dalla narrativa emergenziale dell’ “epidemia di sofferenza psicologica di giovani ed adolescenti”, per fermarsi e cercare altri punti di vista per decifrare le forme di questo malessere ed il contesto in cui si manifesta, cominciando altresì con il guardare con occhio critico ciò che il mondo adulto sta mettendo in campo per interpretarlo ed essere di aiuto, senza timore di individuare i possibili effetti iatrogeni delle attuali modalità con cui questo fenomeno viene trattato dagli adulti di riferimento e dalle figure professionali presenti nei contesti di vita e di cura attraversati dai ragazzi.

Un primo scollamento che può in parte essere significativo nel rispondere all’apparente paradosso è infatti quello tra crescente attenzione e reale ascolto dei diretti interessati. Come spesso accade, e come ben descritto dall’ultimo libro di Lancini (rif in biblio), di fronte al disagio dei giovani, il mondo adulto rischia di essere maggiormente preoccupato dal vedere nella sofferenza dei ragazzi il fallimento del proprio ruolo (genitoriale, educativo, di cura, istituzionale etc…) che non nel porsi in una posizione di reale ascolto e riconoscimento di ciò che chi abbiamo di fronte sta manifestando.

IL TABU’ DEL FALLIMENTO E LA SALUTE MENTALE

“Con tutto quello che ho fatto per te”  è una delle frasi più ricorrenti quando si incontrano figure di riferimento (principalmente genitori) di adolescenti che stanno male. La delusione e la paura di aver “sbagliato tutto” non è tanto (o solo, a seconda dei casi) relativa a insuccessi scolastici, comportamenti “inadeguati” o scelte di vita non condivise, ma al fatto che nonostante tutta la fatica e i sacrifici per crescere ragazzi e ragazze felici e realizzati e realizzate, loro si scoprano infelici, o stiano male.  Genitori e società tendenzialmente oggi più attente ai bisogni dei propri figli ed alla loro realizzazione personale (per un approfondimento sui modelli di genitorialità v. Lancini) implicitamente comunicano ai giovani che l’unica cosa che gli chiedono è di essere felici, e di realizzarsi come individui. Una richiesta apparentemente desiderabile, rispetto a quelle che hanno caratterizzato generazioni di adolescenti precedenti (che oggi vogliono essere genitori migliori), che rischia però, controintuitivamente, di accrescere il livello di pressione, di sensi di colpa e di sentirsi sbagliati, tutte emozioni provate dai giovani quando si scontrano con un mondo extrafamigliare fatto anche di frustrazioni, delusioni, limiti, mancanze, ingiustizie. Ovvero quando la “promessa” di realizzazione personale (“sii te stesso”), supportata da una narrazione meritocratica (“se ti impegni ce la fai”), consumistica (“tutto ciò che desideri è potenzialmente a portata di mano”) di fatto spiccatamente individualistica, fatica a collocarsi in un contesto storico caratterizzato da impotenza e incertezza, derivanti dall’assenza di un orizzonte condiviso di futuro, in termini positivi  (vedi Crotti; Benasayag).

Il rischio è che per ogni storia di singoli che “ce l’hanno fatta”, chi si misura con il fallimento percepisca la propria condizione come una faccenda strettamente legata a fattori individuali. In altri termini in un contesto apparentemente supportivo e pieno di possibilità, il fallimento e l’infelicità rappresentano esperienze che non trovano diritto di cittadinanza, e non trovano spazi di ascolto da parte di un mondo adulto che dovrebbe così mettere in discussione i propri modelli di riferimento (in questi termini Lancini parla di Società dissociata). Non essere felici e realizzati rischia di rappresentare oggi una colpa individuale, una condizione di cui vergognarsi, indice che qualcosa “non va in me”, che difficilmente può essere condivisa con i pari ed espressa, ascoltata e presa in carico dalle figure di riferimento. A meno che l’insostenibilità di tale pressione non prenda forme espressive sintomaticamente rappresentabili, narrabili e quindi trattabili come un disturbo, una malattia, un problema diagnosticabile di salute mentale, che apparentemente solleva dalla responsabilità i diversi attori in gioco, sia individuali che collettivi. Ed è a questo punto che entra in campo la psicologia.

TROPPA PSICO(PATO)LOGIA NELLA VITA QUOTIDIANA

All’interno della cultura contemporanea (occidentale) si rintraccia la tendenza a reinterpretare in termini psicologici, e pertanto individuali, fatti ed esperienze quotidiane, come evidenziabile dal linguaggio comune (es. stress, e lo stesso termine “terapia”). Allo stesso modo anche termini propri della psicopatologia sono entrati nel linguaggio comune per riferirsi ad un continuum di fenomeni che arrivano anche a includere esperienze di vita che, sebbene non piacevoli e talvolta difficili, siano comuni e non “patologiche”. Questo avviene in riferimento ad esempio all’emotività (es. ansia; depressione sovrapposte a preoccupazione o tristezza/malinconia), a tratti del carattere (es. narcisista per persone sicure di sé e persuasive), a vissuti legati ad esperienze di vita (es. trauma per descrivere le avversità) e relazionali (es. bullismo, per riferirsi ad atti di prevaricazione).

Questo fenomeno è osservato e studiato da diversi autori (“concept creep” rif in biblio) che hanno rilevato come l’espandersi del campo del significato di alcuni termini (come ad esempio ansia e depressione), sia in termini di specificità che dal punto di vista qualitativo, non si sia accompagnato solo da una progressiva normalizzazione di tali fenomeni, non più stigmatizzati e visti come un tabù, ma al contrario rischi di espandere in termini di psicopatologizzazione la quantità di vissuti che vengono identificati come problematici ed afferenti ad una questione di salute mentale. Tale processo si interseca inevitabilmente con un processo simmetrico che procede di pari passo dal lato delle discipline che si occupano di salute mentale, attraverso la tendenza ad espandere la popolazione diagnosticata e diagnosticabile, sia rendendo meno selettivi i criteri diagnostici, sia attraverso la concettualizzazione e formulazioni di nuove categorie diagnostiche (per una critica autorevole all’ “inflazione diagnostica”, vedi Allen Frances).

Senza addentrarci troppo nell’analisi di tale tendenza, non risulta così irrealistico immaginare che la cultura della psicologizzazione e della cura (in un’accezione medicalizzante) possa venir assorbita in termini semantici ed esperienziali da coloro che attraversano una fase di vita, l’adolescenza, caratterizzata dalla scoperta di un mondo emotivo vivo e dirompente e dalla ricerca di una propria identità, che si struttura anche in relazione al trovare un posto nel mondo. Quella che da sempre è vista come una fase di “crisi” e di “ribellione” necessaria verso l’adultità, rischia di rimanere una rinascita e per certi versi una rivoluzione incompiuta, o incompleta, per via del conforto che i propri tormenti possono trovare nella semantica della psicopatologia, che, come la diagnosi, “offre i (dubbi) benefici della conferma e del riconoscimento” della propria emotività e individualità (Furedi).

Il riportare nel campo della problematica psicologica e di salute mentale buona parte delle esperienze e dei vissuti delle persone giovani, ha il duplice effetto di escludere dal campo i fattori politici, sociali, educativi di cui ogni forma di malessere è portatrice, e di accompagnarsi al riconoscimento da parte del mondo adulto, e certificato dalla psicopatologia, degli adolescenti di oggi come portatori di una propria individualità fragile, problematica che necessita di cura, confortando il mondo degli adulti che regolano e plasmano il contesto in cui adolescenti crescono, così che lo stato attuale delle cose viene messo al riparo dal potenziale di cambiamento intrinseco alla sofferenza dei più giovani.

Occorre invece tener a mente anche che “l’adolescente che sta male non è detto che sia malato, l’adolescente che soffre non è detto che sia un soggetto con disturbo mentale” (Lancini). Questo senza negare o svalutare la serietà con cui è necessario guardare e accogliere ciascuna  situazione e casistica, a prescindere dalla loro gravità in termini psicopatologici.

UN ALTRO POSSIBILE RUOLO DELLA PSICOLOGIA

Abbiamo messo in luce come da una certa prospettiva, la psicologizzazione delle forme che oggi ha assunto il disagio giovanile rischi di non cogliere il potenziale trasformativo che, in primis per gli adolescenti stessi, ma anche per la società, questa fase di vita racchiude in sé includendo anche certe quote di fisiologica sofferenza.

Oltre che nei confronti del futuro collettivo, i giovani rischiano così di sperimentare impotenza anche rispetto alla propria esperienza emotiva, laddove tutto ciò che ricade in un discorso di malattia mentale, all’interno di un paradigma d’impronta medica, ha anche come effetto quello di togliere responsabilità, e di conseguenza potere, alla possibilità di ampliare il proprio campo di azione senza un supporto specialistico. Supporto specialistico il cui esito rischia di essere quello, attraverso le proprie pratiche, di offrire riconoscimento e valore alla propria condizione, creando un cuscinetto protettivo nei confronti del mondo (ad es. attraverso le diagnosi e le relative certificazioni) e sottraendo una quota del potenziale che può scaturire dalle tensioni e conflitti presenti nelle relazioni nel contesto sociale, in particolare verso il mondo adulto (figure di riferimento e istituzioni).  

Ogni volta che anche noi psicologi, seppur mossi da buone intenzioni e non solo dalla promozione della nostra professione e della cultura dominante di cui essa è espressione, aderiamo ad esempio a compagnie di psicoterapia di massa (dal bonus psicologo, agli psicologi a scuola, a “vivere meglio” dell’Enpap), e partecipiamo ad iniziative di divulgazione, prevenzione (ad esempio nelle scuole, o in occasione delle innumerevoli giornate nazionali), rischiamo di partecipare alla diffusione di un certo modo di intendere la “cultura terapeutica” (rif Furedi) che in ultima istanza rischia di fragilizzare i singoli, parcellizzare la società e segregare la comunità. Oltre a divenire parte attiva di questa epidemia di sofferenza mentale, che passa anche attraverso forme di contagio sociale soprattutto tra i giovani (vedi Foulkes).

Senza sottrarci al nostro ruolo, soprattutto al nostro ruolo sociale, in alcune occasioni dovremmo avere come obiettivo quello di rendere autonomo e indipendente dalla nostra figura quello spazio che ci viene affidato, talvolta come esito di rivendicazioni (“abbiamo bisogno di più psicologi a scuola!” chiedono i collettivi di studenti). Il nostro ruolo, spostandoci dalla dimensione clinica, dovrebbe in questo senso essere anche quello di aiutare gli attori in gioco a valorizzare e rendere accessibili a tutt quegli spazi che ci vengono concessi anche grazie al fatto di poter partire da sintomi, a volte da diagnosi. Restituendoli allǝ ragazzǝ e ai loro naturali interlocutori, dove questi possano mettere insieme le proprie individualità, fatte anche di sofferenze e fragilità, e provare a trovare risposte comuni. Spazi pubblici e collettivi (a partire dalle scuole) che si smarchino dalla tendenza sempre più presente a diventare luoghi dove ci si occupa di cura e salute in senso terapeutico e fragilizzante. Contesti dove il potenziale che può scaturire dall’esporsi sulle proprie fragilità invece di permettere di identificarsi ed ottenere riconoscimento individuale (eventualmente in virtù di una categoria diagnostica) possa tramutarsi in consapevolezze collettive, confronti e rivendicazioni, riscoprendo l’arte del “sortire insieme dai problemi”.

In diversi contesti di attivismo i giovani già dimostrano di saperlo fare, a modo loro. 

“E voi adulti?”

Riferimenti Bibliografici

 Benasayag M., Schmit G. (2004) L’epoca delle passioni tristi. Milano: Feltrinelli.

Crotti M. (2013) Riconoscersi sulla soglia. Pensare la vulnerabilità per costruire la relazione educativa. Franco Angeli Ed

Foulkes L., Stringaris A. (2023) Do no harm: can school mental health interventions cause iatrogenic harm? BJ Psych Bulletin 2023: 1-3

Frances A. (2013), Primo, non curare chi è normale Bollati Boringhieri

Furedi, F. (2005). Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana. (L. Cornalba, Trad.) Milano: Feltrinelli.

Haslam N (2016) Looping effects and the expanding concept of mental disorder, Journal of Psychopathology 2016;22:4-9

Lancini M. (2023) Sii te stesso a modo mio Raffaello Cortina Editore.

Xiao Y, Baes N, Vylomova E, Haslam N (2023) Have the concepts of ‘anxiety’ and ‘depression’ been normalized or pathologized? A corpus study of historical semantic change. PLoS ONE 18(6): e0288027

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